Francisco José Goya y Lucientes (Fuendetodos 1746-Bordeaux 1828) è nell’opinione storiografica corrente grande pittore cortigiano e civile, interprete esemplare della tragedia di un paese che – nel corso della sua vita – trascorre dall’Ancien régime alla sanguinosa occupazione napoleonica fino alla repressione della Restaurazione: l’artista stesso ne rimase vittima consapevole, chiudendo i suoi giorni nel volontario esilio di Bordeaux dopo aver preso congedo dalla corte.

Dopo un esordio in patria non fortunato, poco più che ventenne, sentì il bisogno di venire in Italia e fermarsi a Roma e a Napoli. Poi rientrò a Madrid e dipinse opere di carattere gioioso e popolare tra il 1763 ed 1781. Il rapporto con la pittura veneziana è ben evidente nelle majas, versioni sfacciate e più sensuali delle Veneri di Tiziano.

Frate impiccato, Feriti in ospedale, Fucilazione (1804-14) sono versioni anticipatrici di quei Disastri della guerra in cui la folgorante ferita del bulino sul rame, si distende in pennellate dense e corpose.

Nel 1789 Goya era stato nominato “pintor de camera del Rey” e in tale ruolo dipinse la monumentale Famiglia di re Carlo IV (1800). La storiografia romantica, che volle farne un rivoluzionario afrancesado, è smentita dai fatti, ma certamente Goya in età matura nutrì sentimenti liberali, assai vicini all’illuminismo: la Maja vestida (1800-07) e quella nuda, sono un dittico tra i più popolari.

Il ritrattista di corte, che serve i suoi sovrani con opere memorabili, è allo stesso tempo, un professionista esemplare in senso propriamente borghese: con lealtà continua il suo lavoro quando sale sul trono Giuseppe Bonaparte. Anni difficili che si fanno drammatici negli anni della guerra d’indipendenza tra il 1808 e il 1814: Goya li supererà, ritagliandosi uno spazio mentale che è solo suo, ed è quello delle incisioni: il tema della condizione della donna e delle relazioni con gli uomini, l’abuso del potere, la violenza e l’irrazionalità come essenziale componente della condizione umana. Il grande ritrattista è intriso di umori veneziani: suo fratello Camilo in veste talare, dal volto solido e luminoso, emerge dal buio del fondo e della veste. Il Marchese de Caballero, Juana Galarza, La famiglia dell’infante don Louis Borbone inducono all’«empietà» di questo Goya ritrattista. La famiglia dell’infante Don Louis (Fondazione Magnani Rocca) è una tela di grandi dimensioni e pari ambizioni e fu eseguita nel 1783 a Madrid.

Nella vasta galleria di ritratti si segnalano quello del duca di Osuna (1790 c.) e quello del conte di Teba (1810 c.), e una dama identificata come Marìa Martìnez de Puga (1824), tele della Frick Collection, New York: questa bella signora dalla pelle candida e dai capelli corvini composti in una degna acconciatura, ha un abito nero, un pendaglio d’oro al collo e un ventaglio chiuso di madreperla che tiene nella mano con un guanto bianco. Il contrasto bianco-nero è uno dei motivi più sapienti e ricorrenti del maestro. Dello stesso anno è il ritratto professionale dell’architetto Don Tiburio Pérez y Cuervo (Metropolitan Museum, New York): infatti questo vecchio signore è seduto ad una poltrona dalla spalliera rivestita di cuoio nero, è dinanzi al tavolo dal quale pende un foglio con il disegno di un’architettura.

Volgere le spalle ai lumi

Ancora in questa ideale galleria s’incontra l’amico di Goya Leandro Fernandez de Moratin (1824, a Bilbao): celebre poeta, scrittore e critico letterario e anche questo è un ritratto professionale e infatti sotto un braccio si vedono fogli di carta manoscritti. Il poeta ha un volto intelligente e uno sguardo acuto: indossa una giacca nera da cui emerge il solo colletto bianco: il ritratto è quello di un letterato, che se ne infischia degli abiti e mostra di non avere alcuna pretesa di eleganza.

La sordità che colpì Goya dopo il 1793, fratello in spirito di Beethoven, contribuì ad accentuare il senso di solitudine in un mondo in subbuglio nel quale emerge con forza il suo sarcasmo anche contro la tauromachia a cui pure dedicò molta attenzione. La disaffezione per la corona, l’aristocrazia e le gerarchie ecclesiastiche infiamma i suoi rami: inizia con i disegni dell’Album di Madrid, a cui seguono i Sogni e sono incipit ai Caprichos (1810) e ai Disparates (1820): monaci crapuloni, monache lascive, oscene streghe, asini che insegnano a piccoli asini, asini che cavalcano poveri schiacciandoli col loro peso soverchiante. All’indomani della Restaurazione, nel 1814, Goya dipinge la Fucilazione del 3 Maggio 1808 (Madrid, Museo del Prado): questa drammatica opera è la spietata denuncia dell’occupazione napoleonica; vuol esser pure la celebrazione di una ritrovata unità nazionale e lo fa con i mezzi meno celebrativi che si possano immaginare, quasi irridendo a quei canoni che sono propri della pittura di carattere evocativo e storico. I gendarmi puntano i fucili contro la bianca camicia del morituro, bianca come la cornea spiritata di lui che brilla in un volto scuro.

Goya dipinge una scena che nessuno prima di lui aveva immaginato con tanto crudele realismo: sicché davvero possiamo considerarla una grande pietra miliare dei nuovi fervori che animeranno l’arte dell’ottocento. Essa, con Goya, sembra volgere le spalle ai principi della fede illuministica.

Incombe una nera folata di oscurantismo e di violenza che sinistramente soffia su una umanità perduta e senza nome: come i morti che - in sequenza - cadono sotto il fuoco della fucileria.

Per altro l’artista aragonese esprime in modo esemplare questo tramonto di ogni illusione: pittore di corte, protetto dai sovrani Carlo IV e da Ferdinando VII Goya mostra di non credere né alla regalità divina della monarchia, né ai principi di Fraternità, Eguaglianza e Libertà sanciti dalla grande Rivoluzione. Ma è ancora più evidente nelle ottanta incisioni sui Desastres de la guerra i rami furono incisi soltanto nel 1863 e restano tra le più alte testimonianze dello Zeitgeist che l’artista aveva rappresentato con una tragicità ed una aderenza realistica che è ben distante dalla “pittura morale”. Con Goya l’illuminismo -- l’Illustración -- con l’articolata strumentazione delle sue virtù, dei suoi principi morali è ormai archiviato

Nel 1824 chiede formale congedo alla corona e si trasferisce a Bordeaux dove dipinge opere degne di uno sfolgorante tramonto. Nel 1828 poco prima di morire, disegna una serie di vecchi curvi con barba lunga, che si reggono a due bastoni e la scritta Aun aprendo. Il vecchio e malato Goya non ha rinunciato a “imparare” dalla guerra, dalle prevaricazioni, dalla bestialità e dalla violenza della condizione umana.

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