A un certo punto tra le #cosedamaschi, Alessandro Giammei ha tirato fuori dalla sua cesta di giochi lo scudo, preso in causa come «finestra sull’anima in bella mostra». Nel leggere la sua carrellata da Zeus a Capitan America, dalle manifestazioni universitarie a Star Trek, (mi appassiona quanto e come riesca a unire puntini lontanissimi, semplicemente guardandoli da un’altra angolazione possono essere in realtà lì, a un passo soltanto) mi accorsi di avere per le mani un testo che era un concentrato di scudi: Sette contro Tebe. Ne avevo un vago ricordo liceale, un misto di noia e “a chi vuoi che importi”. A un nuovo approccio – forse perché ormai extrascolastico – ne è emerso un maschilismo senza mezze misure e con esso la mia ostinazione a rileggerlo nell’intento di volerlo salvare dalla mia antipatia.

Si tratta di una tragedia greca, scritta da Eschilo intorno al 470 a. C. e racconta una questione di potere e di famiglia: Eteocle e Polinice, fratelli e figli (maledetti) di Edipo ormai morto, si accordano per spartirsi il regno di Tebe ad anni alterni. Ma l’accordo va presto in fumo, ed Eteocle si rifiuta di cedere la città al fratello, autodichiarandosi unico sovrano. Polinice, com’è prevedibile, non la prende bene e decide di riconquistare il potere con la forza, assediando la città dalle sue sette porte.

Ecco il punto: a ogni porta un guerriero in attacco e uno in difesa. Per ogni guerriero uno scudo. Fa in tutto 14 scudi! Rileggendo il testo dopo la newsletter noto che la parola “scudo” compare venti volte.

Ascoltare la guerra

Al di là dei numeri, ammetto che rileggere in questi mesi una tragedia così tanto devota alla guerra, così concentrata sulla potenza maschile, le ha dato nuova ragione di esistere, ha messo alla luce motivi per cui vale ancora la pena di metterla in scena – i greci lasciano sempre un motivo, tra le righe.

In Sette contro Tebe la guerra non accade, non si vede, viene raccontata e “ascoltata”. È la tragedia del suono e dell’immagine della guerra: esattamente quello che adesso giunge a noi in Europa della guerra in Ucraina che poi è una “porta” dell’Europa – anche se in tv o su TikTok capita spesso di vedere video dalle zone di conflitto in cui, alle immagini di guerra, non corrisponde più il suono della guerra. Una colonna sonora, oppure un commento che copre ogni rumore, trasforma tutto in una specie di film.

Restando a Tebe, il fragore dei carri, il grido dei cavalli, «l’urto e il suono degli scudi» sono la battaglia che bussa alle porte, sono sostanza del teatro bellico quanto le armi e le carni di chi ci combatte.

Una levata di scudi

Il modo in cui il tragediografo narra la vicenda è schematico e per certi versi estenuante: Eteocle sovrano urla, un messaggero racconta, le donne piangono e tremano. Quest’ultima è la ragione per cui misurarsi con questo testo è stato un valido esercizio, una specie di yoga letterario. In questo gioco delle tre carte i veri protagonisti della storia, cioè i guerrieri, non parlano e non compaiono neppure. Come mai? A dominare è la loro immagine: i sette guerrieri di Eschilo non indossano uno scudo, loro sono esattamente lo scudo che indossano, tutta la loro essenza (che coincide con la loro virtù) è forgiata nel cerchio di ferro.

Muti, lo calzano come se fosse una maschera, non del viso ma del corpo, adempiendo al compito di nascondere l’umano – scrisse a proposito il grecista Umberto Albini: «dietro lo scudo scompare il lato e il limite umano» – e al pari di una maschera, mentre nasconde, amplifica, totemizza e dunque spaventa. In quanto viso dell’eroe lo scudo parla per lui: «Io arderò Tebe» grida l’uomo nudo con la fiaccola scolpito sullo scudo di Capaneo.

Sono meravigliose le descrizioni che il messaggero riporta di questi scudi-maschere-gioielli: un cielo «arso di stelle» con al centro una luna «occhio della notte» è l’insegna di Tideo; in quella di Partenopeo la Sfinge mangia la carne cruda di un tebano; fuoco e fuliggine e grovigli di serpi sullo scudo di Ippomedonte; è privo di emblema lo scudo di Anfiarao (e ricorda quello specchiato di Perseo che lo stesso Giammei ha evocato) perché vuole «essere, non parere il migliore»; la Giustizia in persona abita l’insegna di Polinice, settimo e fraterno nemico, e lo conduce per mano – «con calma» recita il verso, e salta all’occhio nel massimo della tensione drammaturgica.

Non solo supplemento d’armi, di difesa o d’attacco, non solo vanto di cui s’adorna il guerriero, ma addirittura viso, a riprova di quella finestra sull’anima da cui siamo partiti, che rivela l’umano, illudendosi di celarlo.

Ah, alla fine i guerrieri muoiono tutti e quattordici. Erano bellissimi, gli scudi, ma non sono serviti a molto. Le femmine lo avevano annunciato a pagina due che sarebbe finita male, ma senza scudo non sono sembrate credibili.

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