In una recente analisi sull’invasione russa dell’Ucraina e le sue conseguenze sulle relazioni transatlantiche, gli esperti del think tank Ecfr (European council on foreign relations) Jeremy Shapiro e Majda Ruge hanno esaminato l’attuale valutazione in atto sul concetto di morte, o fine, della sovranità europea, definendo tale considerazione esagerata.

La decisione di Putin di invadere l’Ucraina ha rappresentato una grande sorpresa per analisti e commentatori di entrambe le sponde dell’Atlantico, sorpresa dovuta a un’inattesa unità dell’occidente, seppur inizialmente timida e rallentata, nel reagire alle azioni di Mosca e nel gestire le conseguenze del breve periodo sulla stabilità politica, economica ed energetica, specialmente dell’Unione europea, indiscutibilmente il lato più debole e maggiormente esposto alla visione e azione putiniana.

I pacchetti di sanzioni e le decisioni energetiche approvate e adottate dall’Ue costituiscono infatti una svolta senza precedenti nelle relazioni con Mosca e nella gestione di Putin. Sono state il risultato di un processo difficile e tormentato per l’Unione nella sua totalità come attore sovrano e strategico, ma ancor di più per i singoli stati membri, in primis l’Italia con la svolta draghiana anti-Russia, e la Germania con la tanto dibattuta Zeitenwende (La svolta), entrambe impegnate ora in un complicato processo di dibattito nazionale focalizzato sul riposizionamento, se non ribaltamento, della propria politica estera, commerciale ed energetica.

Riposizionamento reso ancora più complicato dai fragili equilibri politici interni i quali rendono l’adozione di tale svolta una delle più grandi sfide che Roma e Berlino non avrebbero forse mai pensato di affrontare.

Un successo imperfetto

Questa unità europea, come sostengono Shapiro e Ruge, ha certamente avuto luogo dietro forte spinta e pressione statunitense e dopo un’iniziale fase di esitazione e disorientamento.

Tuttavia, essa rimane e costituisce il risultato di uno sforzo politico inimmaginabile se pensiamo a come il processo di integrazione europeo sia da sempre influenzato da ventisette visioni e interessi strategici nazionali. Per questo motivo, la reazione europea all’invasione russa dell’Ucraina dovrebbe essere considerata un successo, imperfetto, ma comunque un successo.

Un successo, tuttavia, con un grande punto interrogativo di cui prima o poi Bruxelles dovrà prendersi la responsabilità, dovendo dare risposta a come sia stato possibile non comprendere la necessità di un urgente intervento sulle modalità e gli strumenti che hanno permesso alla Russia di Putin di espandersi in Europa economicamente, commercialmente, energicamente e culturalmente.

Se la questione economica, commerciale, energetica sta già ampiamente dominando a 360 gradi il dibattito europeo, come del resto i ventisette dibattiti nazionali, rimane ancora un vacuum in termini di valutazione e analisi della questione culturale e della sua relativa moralità, le quali in tempi di guerra sono sempre e purtroppo le grandi perdenti. Le terribili e scioccanti storie e immagini di Bucha e il dibattito pubblico da esse scaturito fondato su disinformazione e propaganda, soprattutto in alcuni stati membri come l’Italia, lo confermano e costituiscono uno dei momenti più difficili per l’Europa.

Le modalità con cui Bruxelles ha gestito le strategie di disinformazione russa adottate in territorio Ue, fisicamente e virtualmente, costituisce quindi oggi più che mai uno dei temi più delicati, o insuccessi più visibili, con cui l’Ue prima o poi dovrà fare i conti.

Il precedente cinese, che ha visto picchi esponenziali soprattutto nelle prime fasi della pandemia, non sembra essere servito a Bruxelles per elaborare una strategia agilmente applicabile contro azioni di disinformazione messe in atto da attori e potenze straniere. L’Ue non è nota per saper reagire ed elaborare in maniera veloce e immediata.

Tuttavia, la pandemia sembrava aver dato quella necessaria e immediata spinta propulsiva rappresentata dal Next generation Eu, un piano d’azione senza precedenti per il processo d’integrazione europeo. E lo è stato soprattutto per il dossier tecnologico e green, quest’ultimo ora rallentato e messo in discussione dall’impatto energetico dell’invasione russa dell’Ucraina.

Malgrado questo impeto reattivo, la gestione della disinformazione straniera rimane un grande tallone d’Achille per l’Ue su cui molto rimane da fare come il caso russo dimostra.

Anticipare la disinformazione

Cosa dovrebbe dunque fare l’Ue alla luce della constatazione degli effetti di tale vacuum decisionale e strategico? Innanzitutto, accettare il fatto che, come nel caso della crisi finanziaria, del fenomeno migratorio e del populismo, la disinformazione non è un evento emerso in Europa all’improvviso e senza preavviso ma un processo graduale, costante e soprattutto prevedibile e anticipabile.

L’invasione russa dell’Ucraina ha solamente scoperchiato con irruenza un fenomeno da anni presente a livello comunitario e ancora più radicato a livello di alcuni stati membri, i cui governi hanno, attraverso determinati orientamenti di politica estera, esposto sé stessi e i propri cittadini a vulnerabilità invisibili e pericolose.

Come analizzato dal GEC Special report. Russia’s Pillars of Disinformation and Propaganda, la disinformazione russa è sviluppata e distribuita secondo cinque pilastri: comunicazioni ufficiali del Cremlino; strategia comunicativa finanziata dallo stato; supporto alle risorse e narrative proxy; strumentalizzazione dei social media; disinformazione attraverso strumenti cyber. L’ecosistema della disinformazione russa è dunque presente, radicato, consolidato tramite canali ufficiali come anche ufficiosi e non direttamente riconducibili a Mosca. Presente e radicato in un’Europa sicuramente in una posizione complicata e con limitate capacità di gestione su fronti multipolari come appunto quello russo e cinese.

Binari d’azione

La narrativa e la relativa disinformazione circa l’invasione russa dell’Ucraina sta davvero rappresentando un fondamentale stress test per l’Ue in merito alla lotta contro essa in nome della garanzia di una sfera pubblica di dialogo e confronto democratici fondati su dati, fatti e numeri. Per questo una strategia avviata su un doppio binario d’azione è necessaria.

Il primo binario è quello dei singoli stati membri in cui pluralismo informato e canali di informazione dovrebbero essere tutelati e rafforzati in termini monetari, di capacità d’azione e di valori deontologici. Il secondo è a livello comunitario, in cui sistema normativo e comunanza di valori dovrebbero integrarsi e supportarsi l’uno parallelamente a un sistema efficace di monitoraggio della disinformazione coordinato e condiviso. Ma condivisione e coordinamento sono spesso temi difficili da accettare in seno alle ventisette capitali. 

E vi sarebbe poi un terzo binario, con cui l’Ue dovrebbe supportare i singoli stati membri in questa presa di posizione e di difesa democratica, assolutamente necessaria se pensiamo ad esempio alle conseguenze della disinformazione populista ed euroscettica, quindi non solo ad opera russa o cinese, sui processi democratici rappresentanti delle elezioni nazionali come nel caso dell’Ungheria di Orbán, la Polonia del PiS e l’Italia del governo giallo-verde.

Questo ovviamente non significa che l’Ue stia semplicemente a guardare. L’adozione da parte del Consiglio dell’Unione europea del regolamento 350/2022 e della decisione 351/2022 volte a vietare ai network radio, internet e tv di trasmettere e diffondere qualsiasi materiale prodotto dalle emittenti russe Sputnik e Russia Today, è un importante passo nei confronti di un attore fino al 24 febbraio partner chiave dell’Ue.

Ma è un passo volto a limitare la destabilizzazione derivante dalla disinformazione promossa da tali piattaforme, e soprattutto costituisce un’azione emergenziale e non strategica. Come la pandemia, e ancor prima la crisi climatica, ci avrebbero dovuto insegnare, sarebbe preferibile anticipare ed elaborare azioni e strategie graduali e permanenti, invece di ricorrere a importanti decisioni, tuttavia improvvise.

A questo si aggiungono quesiti morali circa la problematicità di un’eventuale limitazione alla libertà di espressione come anche il tema di come lavorare e collaborare con alcune delle grandi piattaforme megafono dei messaggi propagandisti, ossia le big tech, protagoniste dinamiche e a cui l’Ue ha già chiesto maggiore responsabilità tramite il Digital service Act e il Digital market Act, due misure alquanto straordinarie per l’Ue se collocate nel contesto pandemico e di guerra.

Come sempre, si ritorna alla riflessione circa la sovranità strategica, e ci si chiede quale ruolo l’Ue è realmente capace di svolgere. Riflessione resa ancora più introspettiva ma quanto più necessaria se pensiamo al ruolo che Russia e Cina possono ancora svolgere sulla base dei successi già ottenuti.

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