Il montare di questa ennesima guerra, così vicina e così raccontata, così legata al terrore nucleare e alla radicalizzazione delle divisioni politiche (pur sedicenti post-ideologiche) d’occidente, mi lascia, come immagino chi legge queste righe, sgomento.

Detesto in particolare il fatto di ritrovarmi a pensare a quest’uomo, Vladimir Putin, tutti i giorni, evidentemente contagiato dal suo delirio di contenere in sé un intero popolo, una geografia umana grande come un continente. Ho cercato di disciplinarmi, e di pensare a come Putin performa la sua maschilità, ridicola eppure fatalmente efficace. E ho ricordato il seminario di un attempato francesista di Princeton, che qualche anno fa stava ragionando sulla storia del carisma e faceva un confronto tra i quadri di Napoleone a cavallo e le foto propagandistiche di Putin (sempre a cavallo).

Per parlare di carisma, come poi gli fece notare una mia brillante collega storica, adoperava solo e soltanto esempi maschili, per qualche motivo tutti a cavallo. E tutti bianchi.

A sinistra Ufficiale della guardia imperiale a cavallo alla carica di Théodore Géricault, immagine da Wikimedia commons; a destra Ufficiale degli ussari di Kehinde Wiley, dal profilo Instagram di Kehinde Wiley

Anche di questa guerra, si fa notare spesso, sembra che ci interessiamo particolarmente solo perché la combattono uomini bianchi (biondi si dice, con gli occhi azzurri, per calcare la mano sul punto, specie qui negli Stati Uniti). E tuttavia non mi riesce di non interessarmene. Almeno per il prossimo mese conto dunque di ragionare, per Cose da maschi, su oggetti che hanno a che fare con la mediatizzazione e la simbologia della guerra: un terreno assai fertile, storicamente, per coltivare l’immaginario della marzialità (ma anche per sovvertirlo, come si diceva qualche settimana fa).

Già questa settimana sono partito da un’immagine guerresca: il cavallo rampante su cui siede, armato di spada e solenni baffi, l’ufficiale della guardia imperiale dipinto da Géricault nel 1812. Con l’aiuto della superba versione di Kehinde Wiley del 2007 però, ho usato quell’ussaro impennato per pensare a una cosa da maschi sia ovvia che imprendibile: la canottiera.

Illustrazione di Didier Falzone

Trovate il pezzo, con un taglio diverso della sgargiante illustrazione di Didier Falzone, qui su Domani, e lo troverete stampato sul giornale sabato in edicola.

Ne ho fatto, inizialmente, una questione di razza, o meglio di intersezione tra identità maschile e identità razziale, etnica, e nazionale. La canottiera infatti, ho scoperto in America, ha uno storico simbolismo legato alla razzializzazione dell’italianità, alla discriminazione dei neri e, più di recente, alla xenofobia contro i latinoamericani.

Tutto si gioca su pregiudizi di violenza domestica (e al contempo dipendenza da un femminile accudente), pigrizia (e al contempo fatica da lavoro manuale), rozzezza ed estraneità alle norme signorili della maschilità dabbene.

Barack Obama e Marlon Brando mi hanno aiutato a esplorare questo punto, assieme a Chris Moltisanti dei Sopranos e a Mamma Roma di Pasolini, che cita Andrea Mantegna. Ovviamente al centro dell’articolo c’è l’immortale canzone dello Zecchino D’Oro Metti la canottiera, che mette in campo una normatività opposta (chi non mette la canottiera è anomalo, ribelle, inadeguato) citando incongruamente Rambo. E infine sono arrivato alla questione di classe, che forse può dissipare stereotipi e violenza tra Fantozzi, Bruce Springsteen, Paul Newman e Blanco.

È stato assai interessante ricevere l’illustrazione di Didier Falzone, il cui omino a collage questa settimana non somiglia a quelli soliti dai connotati piccini e buffamente assorti. C’è, mi sembra, un’etnicizzazione qui: il profilo (capelli pettinati indietro, naso importante, sopracciglia forti e curve) è quello appunto di un personaggio dei Sopranos, o di un working-class-hero un po’ oscuro, vagamente pericoloso.

Nell’atlante iconografico basta una canottiera a evocare simili tinte della virilità, a riprova che nessun oggetto nasce con un significato intrinseco ma ogni cosa produce, caricata com’è di significati stratificati, un certo maschile specifico. Nell’epoca forse meno oggettiva della storia, gli oggetti ci dicono cose lampanti – anche se non è sempre facile tradurle in parole. Continuiamo a provarci, nonostante la guerra.

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