Nel 1998 il regista Peter Weir ha portato sullo schermo la storia di Truman Burbank, un uomo di 30 anni inconsapevole del fatto che tutta la sua esistenza è in realtà una grande messinscena ambientata nella fittizia cittadina di Seaheaven.

Diversamente da quanto il nome potrebbe far pensare, infatti, non è un porto sicuro ma il set di una soap opera che va in onda 24 ore su 24 a partire dalla nascita del protagonista, prelevato da una gravidanza indesiderata e “adottato” da un’emittente televisiva che ha messo in piedi una produzione per commercializzare i più svariati prodotti tramite ogni fase della sua vita.

Tutti i suoi affetti, tutte le situazioni che ha vissuto, anche il cielo che vede sopra di sé sono in realtà un grande inganno di cui il protagonista non è che un burattino che viene mosso a seconda dei brand da pubblicizzare, e che non ha mai imparato a vivere secondo la propria volontà perché ogni attimo è stato programmato e costantemente manipolato da Christof, il regista dello show che si comporta come un deus ex machina.

Nel mondo di oggi, invece, non sono necessarie grandi produzioni televisive: il The Truman Show è replicato sugli schermi dei nostri telefoni attraverso i sempre più numerosi profili di minori gestiti dai genitori che diventano veri e propri palcoscenici digitali in cui esporre i più piccoli. 

A chi non è mai capitato di vedere scenette “divertenti” con dialoghi tutt’altro che spontanei; balletti in cui bambine piccolissime vengono ipersessualizzate per ricalcare i trend della piattaforma o bambini malati, ripresi 24 ore su 24?

I più piccini diventano così il content di questi account, dei baby influencer che, grazie alle numerose visualizzazioni, iniziano a collaborare con i brand macinando fatturati da migliaia di euro, tanto che per molte famiglie condividere questi contenuti è diventata l’unica fonte di reddito percepito. 

Business della genitorialità

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La continua condivisione di materiale che ha come protagonisti i bambini prende il nome di sharenting, un anglicismo che deriva dalla fusione tra sharing, cioè condividere, e parenting, ossia essere genitori.

Basta scrollare la sezione reel di Instagram o la home di TikTok per rendersi conto che sono sempre più numerosi i profili dedicati alla maternità o all’esperienza genitoriale in cui le creator, che hanno quasi sempre nello username la parola “mamma” o “mom”,  condividono dubbi, preoccupazioni e domande sulla gestione dei figli, specie di quelli più piccoli, esponendoli potenzialmente a milioni di persone nei momenti più delicati della loro crescita: cambi di pannolino, bagnetti, pappe o sonnellini diventano così momenti costruiti con un preciso scopo editoriale, in cui bisogna stimolare una reazione emotiva in chi li guarda per fare più views e interazioni, aumentando così il proprio valore commerciale e diventando più appetibili per i brand.

Non è un caso che spesso si ricorra all’espediente comico, anche se dubito che riprendere un bambino in lacrime seduto sul vasino che non riesce ad andare di corpo sia poi qualcosa di così divertente, almeno non lo è per lui.

Un business di cui non possono fare a meno nemmeno gli influencer più seguiti: dal test di gravidanza, alla prima ecografia;  dal gender reveal party (un momento pacchiano in cui i genitori fanno una diretta sui loro account per “rivelare” il sesso del nascituro in mezzo a palloncini, luci, fuochi d’artificio e musiche; tra i più recenti, ha fatto discutere in particolar modo quello della influencer Chiara Nasti e del calciatore Mattia Zaccagni che hanno affittato addirittura lo stadio Olimpico), fino alla nascita: l’arrivo di un nuovo membro della famiglia è un momento estremamente redditizio perché l’altissima attenzione mediatica che gira attorno ai profili dei genitori è il momento ideale per stringere nuovi accordi commerciali con brand dedicati all’infanzia o per lanciare le proprie collezioni.

Un esempio? Chiara Ferragni che dopo il parto condivide il primo scatto della piccola Vittoria con indosso una cuffietta della collezione Chiara Ferragni Collection, mettendo in vendita poco dopo il pigiama con il quale si è fatta ritrarre nel primo scatto con la piccola e che è andato sold out in poche ore.

Effetto Wren

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Su TikTok nelle ultime settimane è nato un vero e proprio movimento che richiede di eliminare ogni contenuto che abbia protagonisti i minori dopo le polemiche che si sono scatenate attorno all'account di una bambina di 3 anni, Wren Eleanor, in cui la piccola è protagonista di decine di video fin da quando è nata che ottengono puntualmente milioni di visualizzazioni.

Gestito dalla madre Jacquelyne, in poco tempo ha collezionato oltre 17 milioni di follower rendendo Wren “la bambina più famosa di TikTok”. Ovviamente, questo ha portato a numerosissime collaborazioni, tra le quali spiccano brand come Shein e Khol's (si stima che ogni post valga circa 13mila euro).

Treccine bionde e occhioni azzurri, a un primo impatto il profilo sembra essere innocuo: Wren gioca, interagisce con la madre, viene mostrata nella sua routine quotidiana. Contenuti come tanti, come quelli che magari avrete condiviso anche voi con parenti e amici o, ingenuamente, sui vostri account social personali. I bambini hanno la capacità di essere dei catalizzatori, sono carini, divertenti, dei contenuti leggeri tra uno scroll e l’altro.

Ma a guardare con attenzione l’account di Wren, si capisce come alcuni contenuti siano in un certo senso volutamente maliziosi.

Il dibattito è iniziato quando l'utente @replyhazy ha fatto notare come il video del bagnetto della bimba fosse stato salvato oltre 50mila volte mentre quello in cui mangia un hot dog oltre 350mila.

Anche altri utenti hanno notato e segnalato alla madre migliaia di commenti inappropriati pubblicati sotto ai video di Wren, sottolineando come le anteprime dei video e i contenuti stessi sembrino essere selezionati appositamente per soddisfare un’audience di predatori sessuali.

Non solo: attraverso l’opzione che consente di “duettare” con i contenuti caricati sulla piattaforma, numerosi uomini adulti hanno condiviso video con le proprie reazioni ai tiktok con protagonista la bambina, in particolare a quelli in cui mangia cibi dall’evidente forma fallica (cetrioli, pannocchie di mais) o in cui gioca con un assorbente interno appoggiandolo più volte nelle zone intime (un contenuto che è stato salvato da oltre 360mila utenti, prima di essere stato rimosso).

Uno spettacolo agghiacciante. La madre respinge tutte le accuse in un video in cui sostiene di aver contattato le forze dell’ordine che le hanno assicurato di non aver trovato alcun contenuto della figlia su siti pedopornografici, dimenticando che se i video sono a disposizione di tutti basta salvarli tra i preferiti o utilizzare l’impostazione per riprendere lo schermo per condividerli anche solo tramite canali come Telegram.

Attorno agli hashtag  #ProtectWren e #Saveourchildren si sono quindi schierate creator, soprattutto madri, che hanno deciso di portare alla luce un dibattito sulla tutela della privacy e dell’immagine dei bambini e sullo sfruttamento minorile da parte di genitori accecati dal richiamo e dalla validazione che portano i social media. 

Autodeterminazione e consenso

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Se il discorso sull’uso del proprio corpo da parte del singolo utente nel contesto del mondo digitale si è focalizzato prevalentemente sul concetto di autodeterminazione (pensiamo al dibattito sul sex work e all'utilizzo di piattaforme come Onlyfans), cioè su una battaglia che ha preso forma negli ambienti femministi degli anni Settanta che vede il corpo come un soggetto politico da rivendicare, per quanto riguarda la condivisione di contenuti che hanno come protagonisti i soggetti minori il dibattito è appena agli inizi.

La generazione Alpha, cioè quella dei nati dopo il 2012, è la prima che si troverà ad affrontare i pericoli di una totale esposizione digitale dal punto di vista fisico e psicologico nonché di quello legale, data l’impossibilità dei bambini di dare il proprio consenso informato all’utilizzo della propria immagine in rete. In molti casi, infatti, non c’è alcun rispetto del corpo e della volontà del minore che, tra l’altro, si ritroverà a doversi confrontare una volta cresciuto con un archivio digitale della propria vita costruito su centinaia di contenuti che non ha scelto di condividere e commenti da parte di sconosciuti che dovrà razionalizzare. 

Ognuno di noi sceglie quali aspetti della propria personalità far emergere online ma immaginate cosa potrebbe significare doversi confrontare ogni giorno con un’immagine filtrata attraverso una narrazione che non abbiamo scelto ma che ci è stata imposta per rispettare degli standard, dei trend o dei brief dettati dai brand.

I primi esperimenti svolti in tal senso parlano chiaro: il recente studio condotto su adolescenti tra i 12 e i 14 anni da Gaëlle Ouvrein e Karen Verswijvel presso l’università di Antwerp, in Belgio ha dimostrato che, sebbene diversi adolescenti sembrino comprendere le ragioni del comportamento dei propri genitori e credano nelle loro buone intenzioni, molti esprimono preoccupazione, paura e imbarazzo e hanno inoltre dichiarato di sentirsi frustrati da alcune contraddizioni tra l'immagine che stanno cercando di costruire online e i post dei loro genitori. A suscitare maggior disagio sono le foto buffe o quelle che mostrano nudità.

Il dibattito in Italia

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Anche in Italia sono sempre più numerosi i profili che hanno protagonisti bambini e famiglie che raggiungono platee di milioni di persone. Bisogna dunque chiedersi: se l'accesso a queste piattaforme è possibile ai soli maggiori di 14 anni, come dobbiamo inquadrare i profili dei più piccoli gestiti dai genitori? Se questi profili sono fonti di enorme guadagno, stiamo parlando di lavoro (e sfruttamento) minorile? Perché bisogna obbligare dei bambini a vivere sotto l'ombra dello stress da performance che caratterizza i social network, costringendoli a realizzare contenuti ogni giorno?

Diversamente dall’attività lavorativa del minore al cinema o nel mondo pubblicitario, normata dall’art. 2 della legge del 17 ottobre 1967, n. 977, il lavoro del content creator non ha ancora un quadro del tutto chiaro anche se il 10 maggio scorso, dopo oltre sei mesi di lavoro, si è chiuso il tavolo tecnico del ministero della Giustizia sulla tutela dei diritti dei minori nel contesto dei social network, dei servizi e dei prodotti digitali in rete, al quale hanno preso parte anche tre Autorità: Agcom, Privacy, Infanzia e adolescenza.

Tra i dati emersi più preoccupanti, ci sono un aumento del 250 per cento negli ultimi cinque anni di minori che commettono reati online di particolare gravità, come la pedopornografia e un aumento del 130 per cento di casi di pedofilia, con abbassamento dell’età dell’adescamento, che ha portato anche a casi di estorsioni sessuali (vale a dire estorsioni susseguenti lo scambio di immagini sessualmente esplicite) nella fascia d’età compresa tra zero e 13 anni, di cui quattro nella fascia d’età fra zero e nove anni

Sono stati inoltre evidenziati due nuclei problematici. Uno, ovviamente, è la regolamentazione; l’altro si individua nella necessità di consapevolezza e protezione della propria identità digitale.

Quest’ultima si dovrebbe incentrare sui tre nuclei: il controllo sui propri dati, la limitazione all’uso dei servizi digitali contemperata dal riconoscimento del diritto anche per il minore di accedere alla rete, e l’attenzione alla reputazione del minore su internet mentre particolare attenzione è stata posta nei confronti del fenomeno dei baby influencer e sul controllo del patrimoni e profitti generati dalla loro attività.

Inoltre i ragazzi, una volta diventati maggiorenni, potranno richiedere alle piattaforme la rimozione dei contenuti che li riguardano. Nella stretta rientrano anche i genitori: l’intenzione del governo è estendere la norma sul cyberbullismo alla pubblicazione di foto dei minori da parte di padri e madri.

Certamente un passo avanti ma nel frattempo, che si fa? L’emulazione condizionata dall’incessante bombardamento di questi contenuti ha portato anche gli utenti più comuni a condividere senza cognizione di causa i proprio bimbi sui loro account. 

Un The Truman Show replicato tante volte quante sono i profili che trasformano i bambini in merce da (s)vendere al miglior offerente.

A un certo punto del film Truman Burbank si rende conto dell’enorme inganno in cui ha vissuto per tutta la sua vita e cerca di scappare da quella gabbia dorata per riprendere il controllo di sé. Truman, “true man” è proprio la fusione tra due parole che identificano la vittoria della realtà, del diventare quel “vero uomo” che può concretizzarsi solo uscendo di scena. Sperando che anche questi bimbi riescano un giorno a liberarsi da quelle catene che li hanno intrappolati in una vita che non hanno scelto.

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