Si diventa scrittori in molti modi, ma sempre sulla scia di un’ossessione.

La prima ossessione di Joyce Carol Oates ha la forma di un piccolo libro, tanto celebre quanto anomalo, allucinato: Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Lo racconta lei stessa nel memoir I paesaggi perduti, dedicato alle figure e ai luoghi della sua infanzia: «Il libro che ha cambiato la mia vita – da cui è nato il mio desiderio di diventare scrittrice, mi fu regalato dalla nonna (ebrea) Blanche Morgenstern nel 1947, in occasione del mio nono compleanno».

La nonna le fa conoscere Alice e Oates, nata nel 1938 e cresciuta in una fattoria a nord dello stato di New York, tra traumi famigliari, segreti e vicini violenti – il padre di una delle sue migliori amiche abusava delle figlie, sparò senza ragione al cane Nellie, per poi tentare di bruciare viva l’intera famiglia –, cade anche lei nella tana del Bianconiglio. Ci cade allora, e continuerà a caderci, anno dopo anno. Ci cade ancora adesso, che di anni ne ha appena compiuti 85, ci cade di libro in libro, portandoci con lei, perché attraverso l’incontro del ‘46 con Alice Oates scopre che l’immaginazione è il suo modo di stare al mondo, la sua pratica eversiva. Nel gesto fondamentale di Alice che, da sola, spinta dal desiderio, si inoltra in un altrove inquietante e quasi del tutto maschile, Oates trova una postura, poetica e conoscitiva, a cui rimarrà fedele per tutta la vita. Postura con la quale, libro dopo libro smaschera il sogno americano basato sul patto tra capitalismo, religione e desiderio dei maschi (bianchi). In Carroll prima, e poi in Kafka, James, Flannery O’Connor, Thomas Mann, Joyce, Emily Brontë, Oates scopre il potere dello scrittore di analizzare la società attraverso le singole interiorità umane e i rapporti che ereditiamo, scegliamo o ci capita di vivere.

Violenza e controllo

Alcuni anni fa Oates ha dovuto rispondere, per iscritto, a una domanda che le ponevano di continuo, ovvero perché i suoi libri fossero così violenti (domanda che, come scrive Oates, difficilmente sarebbe stata rivolta con tanta insistenza a un uomo). I miei libri sono violenti perché violento è il mondo, precisa lei. Ed è violento – possiamo aggiungere, sulla scorta dei suoi scritti autobiografici – sin dall’inizio. La famiglia è il primo luogo in cui facciamo esperienza del potere, e dei suoi abusi. A un certo punto Oates, dirà: «Quando siamo piccoli gli adulti sono misteriosi. Quando siamo piccoli, nella culla, loro sono dei giganti che ci sovrastano: non sappiamo chi sono ma sappiamo che sono molto più grandi di noi». Nasciamo minuscoli e impotenti, la sopraffazione è il dato originario, la possibilità prima, che presto comincia a manifestarsi nel dominio di un gruppo sull’altro, istituendo gerarchie. Oates cresce in un contesto rurale, tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta: la gerarchia che aveva attorno era precisa e inesorabile. L’uomo stava al vertice, sotto di lui, a scendere, la donna, i figli, e poi gli animali, tutti costretti, non solo a subire, ma a infliggersi soprusi l’un l’altro. Il suo amatissimo pollo, di nome Happy, a un certo punto sparisce nel nulla, e proprio a questo essere, insignificante per tutti tranne che per lei sola, Oates dedica le pagine più belle di tutta la sua autobiografia.

Torniamo per un attimo ad Alice: la bambina di Lewis Carroll vive avventure selvagge, vede adulti compiere cose assurde o tremende – proprio come accadeva a Oates – ma, ecco il punto importante, non perde il controllo. È un esempio formidabile per la piccola Oates, un modello femminile che passa per l’autonomia intellettuale, la libertà di dire, descrivere, e soprattutto immaginare.

L’immaginazione è il modo con cui Joyce Carol Oates comincerà a prenderà posizione, reagire all’ostilità del mondo. Insieme ad Alice, Oates, coi suoi personaggi spesso piccoli, adolescenti, si rivolge agli adulti e dice: «Non ho paura di voi, siete grandi, sì, ma io sono intelligente, e vi analizzerò». Oates si rispecchia nel senso di piccolezza di Alice, ma anche nella sua indipendenza e autosufficienza: è ponendo domande, rilevando l’assenza di senso e dando vita a storie diverse da quelle già in campo, che il subalterno si smarca dalla posizione assegnata, e smentisce un destino.

Alice è sorpresa, a volte intimidita, ma mai sopraffatta. Scrive Oates: «Credo di aver imparato da Alice a essere leggermente più audace di quel che sarei stata, a contestare l’autorità – cioè gli adulti – e a guardare la vita come una possibilità di avventure. Se prendevo Alice come modello ero pronta a riconoscere la paura, e persino il terrore, senza soccombervi. Nei libri di Alice ci sono scene di un’illogicità da incubo, eppure lei non si lascia mai prendere dal panico e non perde né il buonsenso né la dignità».

Da piccola Oates tocca con mano, e in modo puro, assoluto, quei mali divenuti centrali oggi nel dibattito che infiamma giornali e bacheche digitali: cresce in un tempo in cui non c’erano le parole per dire cose come la violenza domestica, l’abuso sui minori, le vessazioni razziali, omofobiche e di classe. Gran parte del suo lavoro ci porta proprio alle radici di queste storture, che lei ha visto perpetrarsi a lungo indisturbate accanto a sé («Ho capito che la scrittura più potente viene dalle aree represse, dai tabù, dalle cose di cui non si vuole o non si riesce a parlare»), ma lo fa – ecco la sua lezione più preziosa, quella a cui guardare oggi – con gli strumenti propri della letteratura, scegliendo sempre il dispositivo narrativo e l’esperienza conoscitiva che sa dispiegare, scegliendo le storie e non l’ideologia. Da Alice nel paese delle meraviglie Oates dice di aver tratto il suo sentimento del mondo come uno «spettacolo assurdo ma affascinante», un’ambivalenza che nei suoi libri si ritrova nel rapporto, per nulla scontato, tra politica e immaginazione.

Trauma e ricerca

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A differenza di quel che accade spesso oggi, col trauma esposto in maniera didascalica e ribadito con slogan e circuiti di pensiero blindati, Oates è interessata a renderlo terreno per la ricerca espressiva, linguistica e visuale. È maestra dell’empatia negativa: nei suoi romanzi si finisce per seguire affettivamente anche il sistema motivazionale, l’intimità, dei predatori. Come succede in Zombie, che suscita nel lettore un misto di affetto e repulsione per il personaggio ispirato al serial killer Jeffrey Dahmer, o nella disfunzione famigliare generalizzata di Sorella, mio unico amore, in cui è davvero difficile distinguere una volta per tutte tra innocenti e colpevoli. Oates ci fa sentire il desiderio dei cattivi, la forza che li spinge verso l’azione irreparabile e lo scempio di vite altrui. Penetrare nella psicologia di chi commette l’abuso è un modo, non per giustificare o assolvere, ma per aumentare la nostra competenza morale, evitando di liquidare il male attraverso facili schieramenti e rassicuranti opere di mostrificazione o di sentirsi esonerati dall’autoanalisi, dal guardarsi dentro.

Oates si insinua nelle dinamiche di potere e compie su di esse un lavoro prettamente narrativo, senza mai abdicare al miscuglio libidico e morale di ogni persona. Lo specifico della letteratura, se ne esiste uno, passa forse proprio da qui: coltivare uno sguardo capace di reggere l’ambiguità, la fluttuazione dei ruoli, l’attrazione verso ciò che ci nuoce. Col suo intuito formidabile Oates tiene insieme visione politica e fedeltà alla natura umana: non troviamo in lei le censure/autocensure, implicite o esplicite, a cui oggi siamo abituati ragionando di identità, corpi e potere. I suoi lavori procedono per mimesi di menti reali, e quindi contraddittorie, storte, fallate, mai sante/santificabili, anche quando si parla di vittime, perché tutte, tutti, rimaniamo umani, ovvero desideranti, e dove c’è desiderio è difficile che ci sia purezza, candore.

C’è molto dei codici originari della fiaba nei romanzi di Oates, perché c’è molto dell’iniziazione al desiderio, della ferocia dei grandi sui piccoli (che possono, a loro volta, assorbire e riprodurre il male), c’è molto dei diversi stili possibili di resistenza alla crudeltà. Coi suoi libri pieni di bambine e adolescenti in pericolo, bambole e animali simbolici, Oates dà vita però a una specie di controcanto dell’immaginario modellato dalla Disney. Gli elementi oscuri delle fiabe, che lo studio d’animazione americano sistematicamente ha amputato, vengono invece esaltati da Oates: il rapporto con la sessualità e quello con la morte, la matrice essenzialmente gotica di ogni infanzia.

Cuore e scrittura

Per Oates ripensare il trauma, lavorarci in senso letterario, significa avere il coraggio di entrarci davvero, con i sensi spalancati, senza balaustre né moti di facile correzione, mostrando i rapporti impronunciabili, invischianti tra le cose, la bellezza, sinistra e lancinante, di certe tragedie. Ed è forse proprio un certo, ambivalente sentimento della tragedia la nota specifica del lavoro di Oates, ciò che le conferisce ormai la statura di classico moderno. Sentimento sempre più raro oggi, data la nostra incapacità di ammettere, specie in pubblico: «Questa cosa è orrenda eppure mi affascina», «è profondamente ingiusta, ma la sua carica attrattiva rimane, mi tocca, mi provoca piacere».

D’altronde, alla domanda su quale fosse un consiglio che si sentirebbe di dare a un aspirante scrittore, Oates una volta ha risposto: «Write your heart out», scrivi fino alla fine del tuo cuore, scrivi dando fondo al tuo cuore. Che è, a dispetto di quel che potrebbe sembrare, la cosa meno rassicurante da dirsi, dato che non si può mai sapere se la tana dell’animale che rincorriamo finirà per farci sprofondare al centro dell’orrore o nel paese delle meraviglie, sempre ammettendo che non si tratti – eventualità che la sua celebre tetralogia, intitolata proprio Wonderland quartet, suggerisce – proprio dello stesso, medesimo luogo.


Lunedì 19 giugno a Milano, evento speciale della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, per celebrare il compleanno della scrittrice americana, 85 anni il16 giugno: il premio Pulitzer Michael Cunningham, Teresa Ciabatti e Jonathan Bazzi ne ripercorreranno la grande carriera letteraria fino a questo nuovo romanzo, mentre Federica Fracassi interpreterà una lettura scenica di alcuni brani tratti da Babysitter (Libreria Mondadori Duomo, ore 18), il nuovo romanzo da La nave di Teseo.

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