Pubblichiamo un estratto del libro “Guarda le luci, amore mio” di Annie Ernaux, edito da L’orma, 2022. 

Vent’anni fa mi è capitato di fare la spesa a Košice, in Slovacchia, in un supermercato inaugurato da poco. Era il primo della città ad aver aperto dopo la caduta del regime comunista. Non so se dovesse il suo nome, Prior, a questo primato.

Sulla porta d’entrata un commesso metteva un cestino nelle mani dei clienti, perplessi. Al centro, appollaiata su una piattaforma ad almeno quattro metri di altezza, una donna sorvegliava i comportamenti e le azioni delle persone che vagavano tra gli scaffali. Ogni loro singolo gesto indicava una diffusa mancanza di dimestichezza con il sistema del self-service. Tutti si soffermavano a lungo davanti ai prodotti, senza toccarli, oppure lo facevano esitando, con grande cautela, per poi tornare indecisi sui propri passi, in un impercettibile fluttuare di corpi avventuratisi in territori sconosciuti.

Era un apprendistato alla vita dei supermercati e alle sue regole, regole che la direzione del Prior – con il suo cestino obbligatorio e la sua incombente sentinella – imponeva senza andare troppo per il sottile. Ero turbata dallo spettacolo in presa diretta di quell’ingresso collettivo nel mondo dei consumi.

Mi ricordavo bene la prima volta in cui ero entrata in un supermercato: era stato nel 1960 in un sobborgo di Londra. Si chiamava semplicemente Supermarket, mi ci aveva mandata la signora presso la quale lavoravo come ragazza alla pari, munendomi di un carrellino per la spesa – cosa che mi imbarazzava un po’ – e di una lista di vettovaglie da comprare.

Non so con precisione quali fossero i miei pensieri e le mie sensazioni. So soltanto che provavo una certa apprensione nel recarmi in un posto di cui mi erano estranei i meccanismi quasi quanto la lingua, che parlavo a stento. Eppure mi ero abituata a quel mondo abbastanza in fretta, e in poco tempo avevo preso ad andarci anche solo per fare un giro, spesso in compagnia di un’altra, anche lei alla pari. Sedotte e incantate dall’incredibile varietà di yogurt – in fase anoressica – e dall’offerta diversificata di merendine – in fase bulimica –, talvolta ci concedevamo la libertà di trangugiare un tubo di Smarties senza passare dalla cassa.

Scegliamo i nostri oggetti e i nostri luoghi della memoria, o piuttosto è lo spirito dei tempi a decidere ciò che val la pena di essere ricordato. I libri, l’arte, i film contribuiscono a elaborare questa particolare forma di memoria. Gli ipermercati, dove la maggior parte dei francesi si reca circa una volta la settimana da più di quattro decenni, stanno cominciando soltanto ora a figurare tra i luoghi degni di avere una loro rappresentazione.

Eppure quando ripenso al mio passato mi rendo conto che a ogni periodo della mia vita sono associate immagini di centri commerciali, con aneddoti, incontri, persone. Ricordo: il Carrefour dell’avenue de Genève, ad Annecy, dove nel maggio 1968 abbiamo riempito fino all’orlo un carrello – soltanto in seguito in Francia lo si sarebbe chiamato caddie – perché si temeva di restare senza viveri l’Intermarché a La Charité-sur-Loire, fuori dal centro abitato, con la sua insegna «I Moschettieri della Distribuzione», ricompensa per i bambini dopo le visite ai castelli e alle chiese in estate, come durante l’anno lo era, dopo la scuola, il passaggio al Leclerc di Osny.

Quello stesso Leclerc dove in seguito ho incontrato alcuni miei ex studenti riconoscendoli a fatica, dove mi sono venute le lacrime agli occhi al pensiero che non avrei più comprato cioccolato per mia madre, morta da poco il Major ai piedi della collina di Sancerre, il Continent sulle alture di Rouen, dalle parti dell’università, il Super-M a Cergy, tutte catene che non esistono più e la cui scomparsa acuisce la malinconia del tempo il Mammouth di Oiartzun, dove non siamo mai riusciti ad andare malgrado volessimo far scorta di chorizo e torrone prima di varcare la frontiera – ma era sempre troppo tardi – e che in famiglia era diventato una battuta ricorrente, un simbolo dei contrattempi e dell’inaccessibile.

I supermercati, più o meno grandi, non sono riducibili alla loro funzione domestica, alla corvée del «fare la spesa». Suscitano pensieri, fissano in ricordi sentimenti ed emozioni. Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo. Fanno parte del paesaggio dell’infanzia di chiunque abbia meno di cinquant’anni.

Con l’eccezione di una piccola categoria di persone, residenti a Parigi o nel centro storico di altre grandi città, l’ipermercato è per tutti un luogo familiare la cui frequentazione è incorporata nell’esistenza stessa, ma il suo impatto sulle nostre relazioni con gli altri, sul modo in cui nel ventunesimo secolo «formiamo la società» con i nostri contemporanei, non viene quasi mai preso in considerazione.

Tuttavia, a pensarci, in nessun altro spazio, pubblico o privato che sia, agiscono e convivono individui tanto differenti, per età, reddito, cultura, origine geografica ed etnica, stile di abbigliamento. In nessun altro spazio chiuso ci si può trovare decine di volte l’anno in presenza dei propri simili, con l’opportunità di farsi un’idea sul modo di essere e di vivere degli altri.

Chi fa politica, chi scrive sui giornali, gli «esperti»: chiunque non abbia mai messo piede in un ipermercato ignora la realtà sociale della Francia di oggi. Quella dell’ipermercato come grande incontro collettivo, come spettacolo, è un’esperienza che ho fatto spesso.

La prima volta in maniera molto acuta, con un vago senso di vergogna. Mi ero ritirata fuori stagione in un paesino della Nièvre per provare a scrivere, ma senza riuscirci. «Scendere al Leclerc», che distava circa 5 km, era per me una fonte di sollievo, un momento in cui mi confondevo in mezzo agli estranei, mi mescolavo con gli altri, tornavo al mondo, alla sua necessaria presenza. E così facendo scoprivo di essere anch’io come tutti coloro che, per distrarsi un po’ o combattere la solitudine, scelgono di andare a fare un salto al centro commerciale.

Spontaneamente, mi sono messa a descrivere alcune delle cose che vedevo attorno a me. È stato senza esitare dunque che per «raccontare la vita», la nostra, oggi, ho scelto come oggetto gli ipermercati. Mi è parsa una buona occasione per riferire di una consuetudine reale – la loro frequentazione – senza ripetere i discorsi, abusati e spesso venati di avversione, che emergono quando si parla di questi cosiddetti nonluoghi, e che non corrispondono in nulla alla mia esperienza personale.

Dal novembre 2012 all’ottobre 2013 ho perciò annotato la maggior parte delle mie visite all’ipermercato Auchan di Cergy, che frequento abitualmente per ragioni pratiche riconducibili soprattutto alla sua ubicazione all’interno del Trois-Fontaines, il più grande centro commerciale della Val-d’Oise. Raggiungibile in macchina direttamente dalla A15 oppure a piedi tramite un percorso pedonale che parte dalla stazione della rer, il Trois-Fontaines è impiantato nel cuore del quartiere Cergy-Préfecture in cui sono concentrati tutti i servizi pubblici – commissariato, posta centrale, caf, ufficio delle imposte, stazione dei treni e dei pullman, questura, teatro, mediateca, conservatorio, piscina, palazzo del ghiaccio eccetera –, diverse sedi universitarie (la facoltà di lettere, l’essec, l’ensea, la Scuola nazionale d’arte) e alcune banche. Al punto che definirei questo spazio – chiamato d’altronde Grand Centre – come un agglomerato, un vero e proprio affastellamento di concentrazioni massicce che nell’insieme rendono la zona molto animata durante il giorno e quasi deserta da una certa ora in avanti.

Il centro commerciale è la più estesa struttura del quartiere. Ce lo si può immaginare come un’enorme fortezza rettangolare di mattoni rosso scuro la cui facciata principale, quella che dà verso l’autostrada, è composta di vetrate a specchio su cui si riflette il cielo. Il lato opposto, rivolto in direzione di una zona residenziale dominata da un grattacielo, è uniformemente in mattoni, come una vecchia fabbrica del Nord.

Dal 1973, l’anno dell’inaugurazione, è stata aggiunta un’ala, perpendicolare a una delle estremità, ora occupata principalmente dalla fnac. Su tre lati ci sono enormi parcheggi, una parte dei quali coperti, disposti su più livelli. Si accede all’interno attraverso dieci ingressi imponenti, alcuni dei quali, addirittura monumentali, ricordano l’entrata di un tempio a metà strada fra il greco e l’orientale, con quattro colonne sormontate da due distanti tetti ricurvi, di cui il più alto, in vetro e metallo, si allarga con grazia verso l’esterno.

Il Trois-Fontaines è di fatto un nuovo tipo di centro città: proprietà di un gruppo privato, è completamente chiuso, sempre sorvegliato, e nessuno può accedervi al di fuori degli orari prestabiliti. La sera tardi, uscendo dalla stazione, la sua massa silenziosa risulta più desolante da costeggiare di quella di un cimitero.

Lì sono riuniti su tre livelli tutti gli esercizi commerciali e tutti i servizi a pagamento che dovrebbero sopperire alla totalità dei bisogni della popolazione – ipermercato, negozi di abbigliamento, parrucchieri, ambulatori medici e farmacie, asilo, fast food, tabaccai, edicole. Ci sono dei wc gratuiti e all’occorrenza si può persino noleggiare una sedia a rotelle. Sono però scomparsi quello che era l’unico bar, Le Troquet, il cinema Les Tritons e la libreria Le Temps de vivre. I negozi di fascia alta sono pochi. La clientela è composta perlopiù da persone appartenenti alle classi medie e popolari.

Chi non lo frequenta abitualmente può sentirsi disorientato, non tanto come in un labirinto, tipo a Venezia, quanto per via della struttura geometrica del luogo, con i suoi lunghi corridoi trasversali che si susseguono da ogni parte, e negozi facili da confondere tra loro. È la vertigine della simmetria, aumentata dalla sensazione di chiuso che la grande vetrata del soffitto, pur lasciando penetrare la luce del giorno, mitiga solo a stento.

L’ipermercato Auchan occupa su due livelli quasi la metà dell’intera superficie del centro commerciale, e si può dire a ragione che ne costituisca il cuore pulsante, dal momento che pompa la propria clientela in tutti gli altri negozi. La sua supremazia è evidente sin dalla facciata principale, dove l’insegna con la scritta auchan campeggia a lettere gigantesche ed eclissa quelle più piccole della fnac e del darty.

Nei parcheggi, i gabbiotti con le file di carrelli portano tutti il logo del brand, rosso con un uccellino. È l’attività commerciale con l’orario più prolungato, 8:30-22:00, mentre gli altri esercizi aprono alle dieci e chiudono alle otto di sera. All’interno del centro costituisce un’enclave autonoma, che oltre al cibo propone elettrodomestici, abbigliamento, libri e giornali, ma anche una serie di servizi – biglietteria, agenzia viaggi, stampa foto eccetera. In un certo senso raddoppia l’offerta di altre attività, ad esempio il Darty, e in qualche caso le ha praticamente espulse dal centro commerciale, dove infatti non ci sono più la panetteria, la macelleria, l’enoteca eccetera.

Il Livello 1, non alimentare, ha la forma di un lungo rettangolo. Delle scale mobili lo collegano al piano superiore, la cui superficie è divisa in due vasti spazi posti ad angolo retto l’uno rispetto all’altro, cosa che, riducendo l’orizzonte infinito delle merci, attenua la sensazione di grandezza. Tutti gli accessi sono presidiati da addetti alla vigilanza.

Questa è la fisionomia dei luoghi che, come mia abitudine, ho percorso con in mano la lista della spesa, cercando semplicemente di prestare un po’ più attenzione del solito ai vari attori, dipendenti e clienti, che lì si muovono e agiscono, e alle diverse strategie commerciali. Non si tratta di un’inchiesta, dunque, e nemmeno di un’esplorazione sistematica, bensì di un diario, forma che corrisponde meglio al mio temperamento, in cui fissare le impressioni lasciate dalle cose e dalle persone, dalle atmosfere.

Una libera rassegna di osservazioni, di sensazioni, per tentare di cogliere qualcosa della vita che vi si svolge. Ho interrotto questo diario. Come accade ogni volta che smetto di registrare il presente, ho l’impressione di ritrarmi dal movimento del mondo, di rinunciare non soltanto a raccontare la mia epoca, ma anche a vederla. Perché vedere per scrivere è vedere altrimenti. È distinguere oggetti, individui, meccanismi e conferire loro valore d’esistenza.

Nel corso dei mesi ho misurato sempre più la pervasività del controllo che la grande distribuzione esercita tanto nella realtà quanto nell’immaginazione – suscitando desideri a comando secondo ritmi prefissati –, la sua violenza, celata sia nella variopinta profusione degli yogurt sia nel grigiore degli scaffali del discount. Il suo ruolo nell’indurre le persone a basso reddito a adattarsi alla propria condizione, nel perpetuare la rassegnazione sociale.

Che siano disposti sul nastro della cassa in piccole quantità o in grossi mucchi vacillanti, i prodotti acquistati sono quasi sempre tra i meno cari. Spesso, all’uscita, sono stata sopraffatta da un senso di impotenza o di ingiustizia. Per questa stessa ragione non ho mai smesso di sentire l’attrattiva dell’ipermercato e della vita che si svolge al suo interno.

Può anche darsi che questa vita – collettiva, sottile, specifica – sparisca presto, di pari passo con l’avanzare di nuovi sistemi commerciali individualistici, come gli acquisti online e la modalità «drive» che, pare, sta prendendo sempre più piede tra le classi medie e alte. Forse da adulti i bambini di oggi ricorderanno con nostalgia la spesa del sabato all’Hyper U, come adesso gli ultracinquantenni conservano la memoria delle drogherie cariche di odori del passato, dove si «prendeva il latte» con un bricco di metallo.

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