In Ferdinando Scianna - Il fotografo dell’ombra, il regista e scrittore palermitano di La stranezza e Viva la libertà, racconta un amore profondo, in puro bianco e nero: «Non è solo il racconto della sua vita e della sua carriera straordinaria, ma è anche la storia della nostra amicizia, e poi c’è soprattutto una riflessione sul senso delle immagini che la fotografia porta con sé»
Ferdinando Scianna - Il fotografo dell’ombra, del regista palermitano Roberto Andò (La stranezza, Viva la libertà), racconta un amore profondo, in puro bianco e nero, per l’umanità e il genio di un amico che ha saputo immortalare la brutalità, la teatralità e l’insolita bellezza del reale nei suoi scatti fotografici. C’è anche l’amore per la Sicilia e per un mentore in comune, Leonardo Sciascia, ma soprattutto c’è un amore per il potere delle immagini.
Ferdinando Scianna, il primo italiano a far parte della Magnum Photos nel 1982, racconta storie, restituisce atmosfere e coglie dettagli altrimenti invisibili: nei suoi scatti, etica e stile, memoria e intuizione, letteratura e fotografia si fondono al servizio della verità e della cultura. Con questo ritratto personale, ricco di testimonianze, Roberto Andò firma con la forza incontrollabile del documentario un film imperdibile, al cinema solo il 6, 7 e 8 ottobre con Fandango distribuzione.
Lei è un campione dell’eclettismo: teatro, lirica, cinema, scrittura e ora anche un film documentario. Cosa la interessa di questa forma narrativa?
La cosa più interessante di questo cinema è che, contrariamente alla finzione, non sai mai come va a finire, lasci sempre la porta aperta all’imprevisto. È una danza con la realtà che affronti di volta in volta. Anche se segui comunque una direzione, in fondo non puoi predeterminare nulla, è un tipo di narrazione che si verifica continuamente e che prende forma durante il montaggio, soprattutto nel caso di un ritratto che diventa anche un autoritratto, perché in questo caso ci sei dentro fino in fondo.
Come sosteneva Henri Cartier-Bresson, un ritratto si fa in due, ci deve essere un dialogo col soggetto. Il mio film non è solo il racconto della vita e della carriera straordinaria di Ferdinando Scianna, ma è anche la storia della nostra amicizia, delle perdite che abbiamo in comune, e poi c’è soprattutto una riflessione sul senso delle immagini che la fotografia porta con sé. C’è una dimensione romantica nei lavori di grandi fotografi come Cartier-Bresson, Scianna o Gianni Berengo Gardin, che hanno vissuto in cerca di istanti da cogliere.
Oggi la fotografia sembra sul punto di scomparire, è completamente cambiata, come probabilmente sta mutando il cinema con l’avvento dell’intelligenza artificiale. Diciamo che c’è, nel documentario, qualcosa di peculiare, direi quasi religioso.
In un documentario, come si può scalfire la “maschera” di un soggetto reale, soprattutto se è un caro amico come Ferdinando Scianna?
Come direbbe Pirandello, cogliere il volto sotto la maschera. Ognuno di noi ha una maschera e bisogna cercare di abbassare le difese del soggetto. Questo non è il mio primo ritratto: ho già raccontato Francesco Rosi per i suoi 80 anni, Harold Pinter e Robert Wilson. Posso dire che ho scoperto aspetti sconosciuti in ognuno di loro.
Che cosa ha scoperto di Ferdinando Scianna?
Ferdinando è un leone che impugna la propria fragilità e la trasforma in forza. Come Francesco Rosi, che affrontava la morte nei suoi film, anche Ferdinando non si capacita della scomparsa dei suoi cari. Quando il suo amico e mentore Leonardo Sciascia gli chiede di immortalarlo in un ultimo scatto prima di morire, entra in una crisi profonda. Non è mai riuscito a dedicargli un libro perché significava fissarlo in un ritratto definitivo e accettare la sua morte.
È complicato fare i conti con la morte in un’epoca di negazione e di rimozione del dolore?
Nella nostra società digitale, che si potrebbe definire di demenza digitale, tutto è costruito per rimuovere l’elaborazione della morte, non c’è spazio per l’introspezione.
Il bombardamento mediatico di immagini di morte ci ha paradossalmente resi immuni dall’empatia?
Oggi, siamo circondati da un’incredibile quantità di immagini che un tempo erano catturate solo dai fotoreporter. Il giornalismo è in crisi, soprattutto per quello che sta succedendo a Gaza, dove Israele non vuole testimoni e, di conseguenza, le immagini sono rare, ma possiamo almeno provare a immaginare l’orrore di questa mattanza di civili.
Questo è il peggior disastro che si sia verificato dopo la Shoah. Quando un intero Occidente arriva a essere così indifferente e ignaro nei confronti di un problema del genere, vuol dire che si è arrivati al capolinea. È una catastrofe culturale dell’Occidente, e questa cosa prima o poi ci si ritorcerà contro in altre forme, c’è troppa rabbia, ingiustizia e voglia di vendetta.
Quanto è difficile rappresentare la violenza al cinema, in questo momento storico?
C’è sempre il rischio di una pornografia della violenza, credo che dei film come Il figlio di Saul di László Nemes o La zona d’interesse di Jonathan Glazer siano degli ottimi modelli di rigore formale e morale, perché lavorano sul fuori campo, sulla tensione tra quello che vedi e quello che puoi sentire e immaginare.
La situazione attuale è il risultato di un fallimento culturale? Gli artisti e gli intellettuali dovrebbero aprire il cuore e la mente delle persone, ma il mondo è sempre più reazionario.
Questa cosa l’abbiamo misurata anche durante la Shoah, il filosofo Theodor Adorno diceva: «Scrivere poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», poi però abbiamo avuto fior di poeti che sono riusciti a rappresentare in modo egregio quella tragedia umana. Credo che l’arte abbia il potere di redimere fino in fondo l’abiezione e il senso di meschinità dell’uomo, ma il fallimento è anche implicito in ogni progetto artistico, perché ogni volta rimaniamo delusi, eppure abbiamo avuto opere come Don Chisciotte, geni come Chaplin o Picasso, ma malgrado questo, la storia infame continua.
Gli intellettuali e gli artisti hanno il dovere di resistere all’idea che tutto sia perduto. Dobbiamo prendere esempio dalla forza dei giovani che scendono in piazza perché il mondo del futuro non può restare inerte ad aspettare. L’Europa dei diritti e di Cartesio non è quella di Emmanuel Macron, e sicuramente non può essere quella della Giorgia Meloni.
Oggi, le nostre illusioni sembrano calpestate e sconfitte da un blocco reazionario, molto peggio di quello dell’Europa dell’Ottocento: una cultura fascista, retrograda e sfacciata, in cui l’alfabetizzazione è in pericolo, se un politico può parlare come Donald Trump o Matteo Salvini. Niente è perduto, bisogna riprendere il filo, e lì dove si perde, bisogna agire, è il nostro compito.
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