L’ultima puntata del podcast racconta la vicenda dei coniugi Bellandi di Prato, sposati con rito civile. Il vescovo li accusa di concubinato, loro lo denunciano per diffamazione. È scontro tra stato e chiesa
«Vi dichiaro marito e moglie». A pronunciare le parole di rito è il ragionier Roberto Giovannini, sindaco del comune di Prato e dirigente locale del Partito comunista, in cui milita anche lo sposo. È domenica 12 agosto 1956 e la sposa si chiama Loriana Nunziati, venticinque anni, indossa un bel vestito di seta bianca con lo scollo a V. Ha detto sì a Mauro Bellandi, trentunenne elegante nel suo completo scuro con fazzoletto bianco al taschino. I due escono dalla sala sorridenti e le due famiglie vanno a festeggiare al ristorante Stella d’Italia, nella vicinissima piazza Duomo, dove le campane suonano e i fedeli stanno uscendo dalla messa nella Cattedrale di Santo Stefano. Finito il rinfresco è appena mezzogiorno, e i novelli sposi salgono sull’utilitaria di Mauro. Poi via, diretti verso la luna di miele a Cortina d’Ampezzo.
Non è l’unico fatto che accade, però, in quella domenica mattina. A pochi chilometri dal comune, alle sei del mattino, si è celebrata la prima messa del giorno nella chiesa di Santa Maria del Soccorso, che è la parrocchia del quartiere popolare dove sia Loriana che Mauro sono cresciuti e dove vivono i loro genitori. Dal pulpito e davanti alla navata gremita di fedeli, don Danilo Aiazzo ha letto una durissima lettera firmata da sua eminenza il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli. Poi la ha affissa sulla porta della chiesa. «Il matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è matrimonio, ma soltanto inizio di uno scandaloso concubinato. I due sono pubblici peccatori. Non sarà benedetta la loro casa, non potranno essere accettati come padrini a battesimi e a cresime, sarà loro negato il funerale religioso».
Da un evento che avrebbe dovuto essere felice a prescindere da dove è stato celebrato, si scatena così il primo scontro della giovane repubblica italiana tra stato e chiesa. Un processo che si interroga sui limiti reciproci tra diritto penale e diritto canonico. I coniugi e i genitori di Loriana, infatti, presentano querela per diffamazione aggravata sia contro il vescovo che il sacerdote.
Il vescovo
Fiordelli è diventato il vescovo più giovane d’Italia quando, nel 1954, ha assunto la guida della diocesi di Prato, proprio nell’anno in cui è stata creata, staccandola da quella di Pistoia. Prato non è un posto qualunque, con la sua concentrazione di operai nelle fabbriche tessili: alle elezioni politiche del 1953 il Pci ha preso il 33 per cento dei voti e il comune è guidato da anni da una giunta comunista.
Per questo, appena scopre le intenzioni della sua parrocchiana, monsignor Fiordelli si irrigidisce. Le chiede perché vuole ripudiare il matrimonio religioso, nonostante venga da una famiglia cattolica e cerca di convincerla a cambiare idea ma senza successo. Anche dicendole che rischia di venire punita secondo il diritto canonico, cosa che puntualmente succede. Non solo viene letta ad ogni messa la lettera del vescovo, ma viene anche pubblicata sul bollettino della parrocchia. Ma se il vescovo ha usato le armi del diritto canonico, allora la famiglia Bellandi è stata pronta a usare quelli del diritto penale. La notizia fa subito il giro d’Italia. È la prima volta, dalla firma dei patti lateranensi del 1929, che un ministro di culto finisce sul banco degli imputati davanti a un tribunale italiano.
Il processo
L’ipotesi d’accusa è diffamazione aggravata e continuata per vescovo e sacerdote e diffamazione a mezzo stampa per il sacerdote che ha pubblicato la lettera sul giornale della parrocchia. Il vescovo respinge qualsiasi addebito penale sostenendo di aver compiuto il suo dovere e che ogni parola da lui scritta risponde al diritto canonico che è in suo potere applicare ai fedeli. Una spiegazione che convince il sostituto procuratore, il quale infatti chiede l’assoluzione per i due religiosi. Di opinione opposta, invece, è la sezione istruttoria del tribunale, che valuta le parole lette in chiesa sulla base del loro peso nel lessico corrente e non dal punto di vista del diritto canonico e rinvia a giudizio i religiosi.
Il dibattito, intanto, è arrivato a toccare il governo democristiano. In parlamento si scatena uno scontro durissimo: Dc da una parte, comunisti e socialisti dall’altra. Mentre a Roma monta la polemica, nei vicoli di Prato non si parla d’altro, travolgendo il primo anno di matrimonio di Mauro e Loriana, che da poco ha dato alla luce il figlioletto Lelio. Fino al pomeriggio del 18 novembre 1957, quando Mauro Bellandi viene ricoverato d’urgenza all’ospedale in condizioni gravissime. Un malore improvviso lo ha colto mentre era diretto in auto a Firenze e ha perso conoscenza. Entra in coma e la diagnosi è pesante: encefalite emorragica, provocata forse da malattia infettiva. Quando si risveglia, è paralizzato sul lato destro del corpo e non riesce a parlare. I giornali cattolici leggono nel malore una sorta di vendetta divina. Il pettegolezzo cittadino invece lo attribuisce a una causa non sovrannaturale. Mauro si sarebbe sentito male dopo aver scoperto che la moglie ha fatto battezzare Lelio a sua insaputa.
Il processo è fissato per il 24 febbraio e i giudici devono valutare se i religiosi siano rimasti nei limiti della loro funzione garantita dai patti lateranensi. Va chiarito se la rispettabilità di una persona sia danneggiata da un giudizio negativo, espresso con i termini tecnici propri del diritto canonico che però hanno accezione negativa nel lessico comune come “pubblici peccatori” e “concubini”.
Sin da subito, il processo assume connotati ben più ampi: per la prima volta, l’istituzione ecclesiastica siede sul banco degli imputati davanti all’autorità statale. Due giorni dopo arriva la sentenza: con un colpo di scena inatteso, i giudici giudicano colpevole il vescovo Fiordelli e lo condannano alla pena di 40mila lire di multa. Assolvono invece don Aiazzi, perché ha agito in esecuzione dell’ordine di un superiore ritenendo erroneamente che fosse legittimo.
La pena è poco più che simbolica, ma sempre di condanna si tratta. Gli avvocati annunciano appello ma, intanto, le ripercussioni sono durissime e immediate. E a intervenire è il vertice della chiesa: papa Pio XII in persona. Con un comunicato sull’Osservatore Romano, il tradizionale ricevimento d’inizio anno in onore del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede viene sospeso come segno di protesta contro l’oltraggio fatto alla chiesa.
La sentenza di primo grado è talmente clamorosa che il processo d’appello passa quasi sotto silenzio quando comincia, il 23 ottobre 1958. Anche perché, appena due settimane prima, è morto papa Pio XII e la chiesa è nel bel mezzo del conclave. L’appello termina a distanza di pochi giorni e ribalta il primo grado: assoluzione, perché il fatto non costituisce reato. La polvere, dunque, finisce sotto il tappeto: la Costituzione sancisce la laicità dello stato, ma il richiamo all’articolo 7 della Carta dei patti lateranensi collocherebbe i ministri di culto fuori dalla legge comune. Una contraddizione che nutre la conflittualità. Servono infatti ancora anni, processi, e una giurisprudenza lenta a formarsi, per stabilire il principio secondo il quale il clero è libero di esercitare il suo ministero, ma quando viola la legge penale va perseguito.
Quanto ai coniugi Bellandi, il clamore ha travolto la loro vita matrimoniale. Appena un anno dopo la fine del processo, Loriana presenta istanza al tribunale per ottenere la separazione legale dal marito. Divorzio non può essere perché la legge non lo permette, ma la separazione con sentenza civile sospende alcuni effetti del matrimonio, come l’obbligo di coabitazione e quello di fedeltà. «Mi sono decisa a questo passo per sottrarmi a un’esistenza ormai impossibile», sono le parole che consegna ai giornalisti.
Si chiude così la storia dei coniugi di Prato. Pubblici peccatori secondo la chiesa, paladini della laicità secondo il Partito comunista. Forse, solo, una famiglia infelice come tante.
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