«Per aver saputo perdere con grazia la sfida impari tra l’uomo e il vuoto che lo pervade»: con questa motivazione ufficiale l’Accademia Svedese mi aveva proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura, il che era abbastanza comico visto che si parlava deliberatamente di una sconfitta, di uno scacco, di una Waterloo.
Vincevo, insomma, perché avevo saputo perdere meglio di chiunque altro – con grazia, dicevano loro, facendomi passare addirittura per uno scrittore delicato –, e la cosa non mi faceva ridere neanche un po’. A dirla tutta quando uscì la notizia me ne rattristai. Innanzitutto il Nobel non aveva quasi mai premiato i grandissimi. Sully Prudhomme e non Henrik Ibsen, tanto per intenderci. I primi della classe, i secchioni, ma mai i geni al di là del bene e del male, gli unici su cui si potesse davvero scommettere a occhi chiusi.

Quotazioni in rialzo 

Ma tutto sommato questo non c’entrava niente con la mia malinconia: non avevo mai sperato nel Nobel e a dirla tutta non sapevo neanche chi avesse avanzato la mia candidatura. Se ne parlava ormai da qualche anno, era vero, ma pensavo si trattasse di quelle voci messe in giro per alimentare ipotesi stravaganti, nomi funzionali a rendere il Premio un po’ più mondano e chiacchierato. Iniziai a preoccuparmi seriamente quando seppi che i bookmakers inglesi mi pagavano nove a uno: coi soldi non si scherza. Non ero proprio il favorito ma rientravo comunque tra i primi dieci.

Tuttavia mi obbligai a tirare avanti come se nulla fosse, tant’è che la mattina dell’annuncio avevo appena ricevuto una escort a cui stavo praticando un ispirato quanto minuzioso cunnilingus. Avevo deciso di adottare in tutto e per tutto il metodo Simenon: cercare di liberarsi del sesso appena sveglio, il prima possibile, preferibilmente dopo la colazione, per poi dedicarsi alla scrittura a mente sgombra.. Il telefono di casa squillò una prima volta, poi una seconda, poi una terza. Era insistente, e io mi dissi che doveva trattarsi per forza di cose della Royal Swedish Academy of Sciences, anche perché gli orari combaciavano: tra poco avrebbero diramato il nome del vincitore. Avrei potuto andare a rispondere e cadere dalle nuvole: «Io ero stato candidato cosa? Io avevo vinto cosa? Io Nobel cosa?».

Riguardo al Nobel un mucchio di scrittori aveva scelto la modalità Stronzo Snob in Servizio Permanente: c’era persino chi aveva costretto il Comitato a lasciare un messaggio in segreteria. Ricordo questa grandinata di chiamate e a ogni squillo la consapevolezza che mi sarei dovuto precipitare a rispondere o quantomeno degnarmi di accendere la televisione o la radio, perché era ovvio che avessi vinto io, che fossi stato condannato a una sovraesposizione mediatica senza precedenti. Ricordo di aver alzato la bocca dalla fica della escort, premurandomi di continuare a tenere scostata la mutandina con il pollice e l’indice, e di aver esclamato: «Qui bisogna organizzare una conferenza stampa!».

A dicembre di quell’anno volai in Svezia. Mi accolse un clima da cani, scudisciate di vento e temperature polari. Per di più Stoccolma era triste, piazza Sergel così linda e in ordine e spopolata da sembrare la quinta scenica di una rappresentazione che non aveva avuto successo.
Mi sorbii tutto il rituale senza battere ciglio: la premiazione un tantino cafona al Concert Hall con ritiro medaglia, diploma, documento attestante il compenso (otto milioni di corone svedesi, pari a circa 920.000 euro), e inchino a sua Maestà; il ricevimento nello Stadshuset, il Municipio di Stoccolma, che anche se tirato a lucido aveva l’aria di una caserma dei pompieri; il banchetto nella fottuta Sala Blu e il gran ballo nella fottuta Sala Dorata, tripudio mondano dell’aristocrazia locale, un gruppetto di vegliardi con corone, fasce, coccarde e spille davvero niente male.

In generale non mi sentivo affatto spiritualmente elevato, come si presume e si pretende che un neo premiato debba sentirsi, e anzi non la smettevo di pensare a cose triviali del tipo: «Qui dentro un tricologo specializzato in trapianti di capelli farebbe una fortuna».

Uno slip di raso 

Quell’anno il Nobel aveva scelto scienziati di prim’ordine nei campi della Medicina, della Fisica, della Chimica, dell’Economia, gente che con le rispettive intuizioni, scoperte e studi aveva effettivamente sospinto in avanti l’umanità, magari anche solo di piccolo passo. Com’era possibile che io mi fossi appropriato della loro stessa onorificenza semplicemente per aver “perso con grazia”?

A pensarci la cosa mi faceva ammazzare dal ridere, oltre a farmi provare un fastidioso complesso d’inferiorità. Che c’entravo io con quei cervelloni? Sì ok, forse erano terribilmente noiosi e si comportavano come se facessero già parte di un club del cucito del cazzo, ma sempre meglio di me. Io ero soltanto un innocuo homme de lettres, uno che aveva architettato una bolla di sapone, tutt’al più, senza essere giunto a nessuna verità empirica, comprovata scientificamente.

Forse per questo mi sembrava di essere l’unico scontento della combriccola. E poi non c’è niente che deprima uno scrittore quanto ricevere un plauso incondizionato. Vedere tutte quelle teste annuire cariche di una commossa approvazione mi annichiliva: la benzina dell’arte è l’indignazione, e anche sentirsi incompresi gioca una parte importante nei processi creativi.

Nel cuore di quella notte svedese, il punto più alto della mia carriera letteraria lo consumai masturbandomi freneticamente sul letto, gli occhi sbarrati al soffitto e le mutande usate di una vegliarda sangue blu che avevo sedotto premute sulle narici.

Era uno slip di raso madreperla – il tipico capo da vecchia e da festa –, che non era riuscito a impregnarsi di nessun odore significativo, tutto sommato asettico, gelato come il vento che a ondate s’infrangeva sui vetri delle finestre.  


Questo stralcio è tratto dal racconto Il Velleitario contenuto nel libro I difetti fondamentali (BUR 2022, pp. 360, euro 13)

© Riproduzione riservata