Qualche anno fa, mentre mi documentavo per il mio secondo romanzo, mi capitò di imbattermi in un saggio scritto a quattro mani da Enzo Soresi, oncologo di fama, e da Pierangelo Garzia, giornalista scientifico ed esperto di neuroscienze. Nonostante il titolo affibbiatogli (Mitocondrio mon amour, a proposito del quale gli stessi autori ammettono candidamente qualche giustificata riserva) il saggio si rivelò un interessantissimo compendio delle ultime scoperte in fatto di biomedicina, epigenetica e medicina narrativa: scoperte a corollario delle quali Soresi, che è un affabulatore di prim’ordine e snobba gli eccessivi tecnicismi, inseriva dozzine di interessanti aneddoti personali. L’impressione che ne ricavai, leggendolo, fu vagamente straniante: immaginate di incontrare a una cena o a una festa un dottore molto competente, il quale, complice l’atmosfera conviviale e il tempo in abbondanza, non si limita a offrirvi un’esauriente panoramica delle prospettive diagnostiche e terapeutiche della cosiddetta nuova medicina “personalizzata”, ma condisce il tutto con un ampio excursus dei suoi travagli privati (quasi tutti, ma non esclusivamente, di carattere clinico o anamnestico).  

Il potere neurotonico delle note

Buona parte del libro insisteva sulla necessità di imparare a invecchiare bene: il penultimo capitolo, in particolare, si concludeva con un lapidario elenco di suggerimenti imprescindibili per la longevità del nostro cervello: «Studiare, leggere, essere disponibili ad affrontare novità, conoscere nuove persone, sentire musica di tutti i tipi e camminare almeno venti minuti al giorno».

A proposito di musica, Soresi aggiungeva un’altra postilla personale. «Sul mio iPad ho scaricato pezzi di tutti i tipi» scrive, «dalla classica alla dodecafonica, da Vasco Rossi a Ramazzotti a Edgar Varèse».

A quanto pare, il potere neurotonico delle note diminuisce d’intensità se ci limitiamo ad ascoltare un solo genere. Se vi piace l’hard rock, ad esempio, l’ideale sarebbe strutturare un’ipotetica playlist tra un 80 per cento di Muse, Biffy Clyro e Aerosmith e un 20 per cento di Ennio Morricone, Laura Pausini e Mozart; se siete appassionati di classica, invece, potreste aggiungere al vostro irrinunciabile 80 per cento di Vivaldi, Beethoven e Schubert il 20 per cento di Frank Zappa, Drake e Run DMC; se adorate la musica Trap, infine, vi converrebbe integrare l’80 per centodi Ghali e Sfera Ebbasta con il 20 per cento di qualunque altra cosa (in quest’ultimo caso, il mio personalissimo consiglio è di invertire le percentuali).

Da anni, sulla scorta di scoperte del genere, io stesso raccomando agli allievi dei miei corsi di ginnastica dolce, quasi tutti ultrasettantenni, di prendersi cura della propria materia grigia mettendola quotidianamente alla prova: il mio specifico trittico di prescrizioni - forse ambizioso oltre il limite dell’inattuabile - include apprendere una lingua straniera (iponimo del più generale invito a “leggere e studiare”), camminare scalzi anche d’inverno (e se l’invito vi lascia perplessi, sappiate che i meccanocettori, termocettori, barocettori e nocicettori plantari - rispettivamente sensori epidermici di movimento, temperatura, pressione e dolore - inviano al vostro cervello un numero esponenzialmente più alto di informazioni se camminate senza scarpe) e infine, non a  caso, imparare a suonare uno strumento musicale (o quantomeno di provarci: magari sarete più fortunati di me, ma capirete più avanti).

Musica e letteratura

Poi, qualche settimana fa, ho ritrovato in rete una vecchia intervista di Rick Moody, il romanziere newyorchese autore del celebrato Tempesta di ghiaccio, dal quale Ang Lee ha tratto un elegante e coerentemente algido film con Sigourney Weaver e Kevin Kline.

Moody, che suona chitarra e basso e ha una band tutta sua, dice che «musica e letteratura condividono lo stesso terreno, perché alla fine la letteratura è fatta di suono. Credo che essere interessato alla musica aiuti uno scrittore a sviluppare l’orecchio, così che quando torna al lavoro sulla pagina può pensare meglio al suono delle parole e alla funzione del ritmo».

Incuriosito dalle sue parole, tempo dopo mi è capitato di chiedere a un paio di giovani amici scrittori se la musica ha una funzione nelle diverse fasi della scrittura dei rispettivi libri. Gli autori, com’è facilmente intuibile, si dividono in due macro categorie assolutamente non compenetrabili: quelli che mentre scrivono non disdegnano di ascoltare musica (con il ponderoso sottoinsieme di coloro che la innalzano addirittura a condizione essenziale) e quelli che nel momento poietico necessitano di un silenzio claustrale, genere al quale confesso di appartenere.

Marco Lupo, vincitore del Campiello giovani nel 2019 con Hamburg, mi ha risposto che il suo specifico processo di documentazione include l’ascolto, talvolta persino ossessivo, della musica folcloristica della regione in cui ambienterà il suo romanzo, come se inebriarsene lo aiutasse a introiettarne a tutto tondo le prerogative socioculturali: quanto alla fase di scrittura vera e propria, la musica è ben accetta, dice, a patto che sia rigorosamente strumentale.

Anche Eleonora Marangoni, che dopo l’esordio con Lux ha pubblicato un saggio (Viceversa, il mondo visto di spalle) e una raccolta di racconti (E siccome lei, ispirati alla carriera di Monica Vitti), ascolta musica mentre crea. «L’importante è che siano artisti o album che già conosco», mi dice, «altrimenti potrei distrarmi sulla scia di suoni che non so dove conducano».

Ammette di indulgere nella ripetizione inesausta, praticamente in loop, di singoli brani: le è capitato con Everyday is like Sunday, di Morrissey, con l’allegro vivace del Trout Quintet di Schubert, con Veridis Quo degli appena scioltisi Daft Punk, con Ceremony dei New Order, con No Other Love di Jo Stafford e con le Variazioni Goldberg di Glenn Gould.

Incuriosito da questi primi responsi, ho deciso di saperne di più allargando la platea di scrittori da infastidire; un ruolo, quello di petulante rompiscatole, che mi calza tradizionalmente a pennello.

La prima è stata la mia corregionale Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Campiello 2017 con L’arminuta e seconda classificata allo Strega del 2021. Donatella mi ha detto di aver scritto Borgo Sud lasciandosi cullare da Max Richter, Vinicio Capossela (Canzoni della Cupa soprattutto) e Nick Cave. «Ghost in l’ho ascoltato milioni di volte», mi ha detto: «il problema è che non capisco benissimo l’inglese, quindi andavo spesso a leggermi ex post i testi e le traduzioni di quelle dolenti ballate. Bè, ti confesso che ogni tanto restavo un po’ delusa dalla dissonanza tra la maestosa, visionaria bellezza della musica di Cave e la convenzionalità dei suoi testi, quindi da un certo momento in poi ho deciso di lasciare da parte le mie curiosità e godermi esclusivamente la suggestione delle melodie».

Tipico problema dei grandi scrittori, mi verrebbe da dire. A proposito di prestigiosi premi letterari, dallo scorso settembre Giulia Caminito detiene l’invidiabile record di essere arrivata in finale allo Strega e di aver vinto il Campiello nello stesso anno: il suo L’acqua del lago non è mai dolce è stato uno dei casi editoriali del 2021.

Stimolo sinaptico della classica

Proprio come Donatella Di Pietrantonio, Giulia adora il compositore britannico Max Richter. «Di solito mentre scrivo prediligo musica strumentale», mi dice in un messaggio vocale. Colonne sonore di film e serie tv soprattutto. The tree of life di Terence Malick e Inception di Christopher Nolan, ma anche Game of Thrones, Gomorra o L’amica geniale, le cui musiche sono state composte proprio da Richter. «Amo Richter perché ha un’impostazione da compositore classico che trovo particolarmente funzionale alla fase di scrittura vera e propria.»          

A confermare l’opinione di Giulia sulle facoltà di stimolo sinaptico della musica classica interviene il giovane scrittore pescarese Alessio Romano, il cui ultimo lavoro pubblicato è una graphic novel su Charles Bukowski, disegnata da Roger Angeles. «Io adoro il rock, ma di solito scrivo in silenzio», mi dice.

Tuttavia, mentre lavoravo al fumetto, ho trovato in soffitta dei vecchi 33 giri di classica appartenuti a mio nonno. Uno di questi dischi era di Gustav Mahler, il compositore preferito di Charles Bukowski: mi è sembrato un segno del destino e quindi, per la prima volta, ho scritto lasciandomi accompagnare dalla musica.»

Per Marco Amerighi, pisano classe 82, traduttore letterario, vincitore del Bagutta Opera Prima con il suo libro d’esordio e appena approdato in dozzina al premio Strega 2022 con Randagi, musica e letteratura sono talmente connessi che mi spiega il suo approccio allo scrivere utilizzando una terminologia analitica quanto quella di Rick Moody (non è casuale che Marco suoni la chitarra): «Ascolto musica soprattutto in fase di riscrittura e nei momenti di blocco», mi dice.

«Spesso mi capita di adeguare la ritmica di ciò che scrivo alla struttura di un brano musicale: un po’ come se in certi paragrafi procedessi dolcemente lasciandomi ispirare dal fingerpicking di Nick Drake, e subito dopo mi lanciassi in una vertiginosa serie di frasi concitate come un assolo dei Motorpsycho. Ma la maggior parte delle volte ho bisogno di pezzi che non mi distraggano troppo: trovo che la musica d’ambiente di Nils Frahm, Broderick o Brian Eno sia perfetta».    

Con Teresa Ciabatti ho un vivace e gradevolissimo scambio via mail. «Posso ascoltare musica solo quando ho trovato il ritmo di quello che sto scrivendo», mi dice. «In genere musica a casaccio, quello che passa la radio. Non scrivendo mai di amore corrisposto, mi emozionano le canzoni che parlano di amore. Penso a Tiziano Ferro, alla sua Potremmo ritornare: mi piace l’idea che i miei personaggi non siano mai stati niente con nessuno, e dunque non potranno ritornare».

Parole che distraggono

Marco Peano, editor di Einaudi, uscito lo scorso gennaio con Morsi per Bompiani, mi manda un lungo vocale poco prima di una presentazione. «Ascolto tantissima musica, ma preferisco brani stranieri, mi dice. Se comincio a seguire le parole mi deconcentro: considerato che il mio inglese è buono, ma non eccelso, non rischio di lasciarmi distrarre troppo dalle parole. Come ulteriore precauzione ho scaricato un programma – scovato grazie a Salvatore Aranzulla – che esclude o ridimensiona le parti cantate e amplifica quella strumentali. In genere, tuttavia, preferisco colonne sonore, quelle dei film di Kubrick e Tarantino soprattutto, e per Morsi ho amato lasciarmi ispirare dal Notturno di Chopin, la famosissima opera numero nove, che mi è sembrata carezzare idealmente le vicende di Sonia e Teo tra le valli innevate attorno a Lanzo torinese».  

Altrettanto interessanti le parole che Alessandra Carati – anche lei nella dozzina dello Strega 2022 con il suo E poi saremo salvi – usa per spiegarmi il suo rapporto con la musica.

«Anch’io trovo estremamente propedeutici alcuni brani di musica classica, classica contemporanea e le colonne sonore, mi dice, che scelgo in relazione all’impeto e alla struttura emotiva di ciò che sto scrivendo. A una scena intensa cerco di far corrispondere un brano altrettanto irruente; per le scene di raccordo preferisco pezzi più rilassanti. I miei autori preferiti sono Benjamin Britten, Max Richter (onnipresente), Arvo Part e qualcosa dei Mogwai».

Michele Orti Manara, che per Rizzoli ha pubblicato da poco Consolazione, snocciola una serie impressionante di artisti che pongono il sottoscritto di fronte alla sua ignoranza/insipienza/superbia di semi esclusivo fruitore di hard rock.

«Ascolto soprattutto musica elettronica, hip pop strumentale e un po’ di jazz, cercando di far coincidere l’atmosfera del brano con quella del capitolo che sto scrivendo (anche lui: è un vezzo epidemico, ndr). La musica mi accompagna in tutte le fasi di scrittura, tranne quella finale, quando rileggo a voce alta e ho bisogno di un silenzio monasteriale».

I nomi degli artisti che ascolta mi sono talmente estranei che gli chiedo di scrivermeli su WhatsApp: J Dilla, Pete Rock, Dj Premier, Dj Jazzy Jeff, MF Doom, 9th Wonder, Kev Brown, Karriem Riggins, J Rawls.   

Scrivere in silenzio   

E poi c’è la pattuglia di scrittori che quando scrivono hanno sempre bisogno di silenzio; il primo dei quali, con mia grande sorpresa, è Diego De Silva.

Diego, che negli ultimi mesi ha partecipato alla sceneggiatura della serie tv tratta da suoi romanzi sull’avvocato Malinconico (di cui è appena uscito l’ultimo: Sono felice, dove ho sbagliato?), ha una cospicua collezione di chitarre e ai tempi dell’università suonava in un gruppo rock.

Mi manda un lungo vocale in cui mi spiega che, per quanto lo riguarda, ascoltare musica mentre è seduto a inventare storie è improponibile per due diversi motivi. «Il primo è che se ascolto un pezzo che mi piace tendo a concentrarmi sulla sua struttura, scomponendone i giri armonici per cercare di riprodurli successivamente alla chitarra, indipendentemente dal fatto che poi ci riesca o meno», mi dice.

«A quel punto, come puoi immaginare, addio ispirazione letteraria. Il secondo motivo è che quando produci narrativa con un bel brano di sottofondo, bè, quello che scrivi ti sembra molto migliore di quanto effettivamente sia e questo è un genere di autosuggestione da cui è meglio che uno scrittore si tenga lontano. A proposito, come procedono le tue lezioni di chitarra?». (E qui ho nicchiato. Ti rispondo tra qualche riga, Diego).

Anche Andrea Pomella, uscito nel 2020 con I colpevoli, sostiene che musica e scrittura sono due attività incompatibili. «Adoro la musica e le ho dedicato un intero romanzo, Anni luce, ma proprio perché mi appassiona pretende tutta la mia attenzione: invertendo i termini dell’assunto, non mi sognerei certo di scrivere mentre sono a un concerto. In compenso, quando sono seduto alla postazione di lavoro, alle mie spalle ci sono tre chitarre e un basso elettrico degli anni sessanta, che ho eletto a numi tutelari».

Quasi paradossale è ciò che mi racconta Alice Cappagli, che prima di esordire con Niente caffè per Spinoza e pubblicare un libro autobiografico sulla sua esperienza di giovane musicista, Ricordati di Bach, ha suonato il violoncello al teatro della Scala per ben trentasette anni.

«La verità è che la musica non l’ascolto quasi mai, dice, tantomeno quando scrivo. Ho passato tutta la vita professionale a fare concerti e ormai non trovo più nulla di davvero attraente nell’esperienza di ascoltare altra gente che suona. Uniche, ma molto sporadiche eccezioni sono il concerto numero 5 di Beethoven per pianoforte e orchestra, qualche poema sinfonico di Strauss o Brahms, e del rock di buona qualità». Strauss e rock nella stessa playlist? Ecco che arriva la decisa approvazione del nostro Soresi.

Chiudiamo la passerella con Emanuela Canepa, vincitrice nel 2017 del prestigioso premio Calvino e uscita due anni fa con Insegnami la tempesta – che mi confessa quanto sia complicato scrivere implorando silenzio quando si ha un marito appassionato di rock anni settanta – e Giorgia Tribuiani, che ha appena pubblicato Padri per Fazi, la quale detesta con la stessa intensità qualunque interferenza sonora.

«Quando vivevo a Bologna, mi dice, avevo dei vicini di casa talmente rumorosi che per ultimare le bozze del romanzo ho dovuto comprare delle cuffie anti rumore professionali, tipo quelle da cantiere. Può anche darsi che la musica aiuti le capacità espressive di uno scrittore, ma a me è passata completamente la voglia di scoprirlo».

Bene. E ora, ad articolo formalmente concluso, mi tocca confessare pubblicamente – e a Diego De Silva in particolare – che quella specie di delirio di onnipotenza da cui sono stato colto successivamente all’esordio letterario, che mi aveva indotto a ritenermi capace - chissà perché - di imparare a suonare la chitarra alla veneranda età di quarantasette anni, si è schiantato rovinosamente sui frangiflutti della realtà.

Ero davvero convinto, sulla scorta delle parole di Moody e dei pareri di centinaia di neuroscienziati, che la chitarra mi avrebbe reso un uomo, e uno scrittore, migliore. Ho provato, Diego: per un anno intero ho dedicato due ore al giorno allo studio accurato di accordi e armonie su una meravigliosa elettroacustica Yamaha nuova di zecca. “Vedrai che dopo il barré sarà tutto uno spasso”, mi avevi assicurato, ma io solo adesso ho la forza di eccepire: dimmi, Diego, in quale universo alternativo la chitarra diventa uno spasso dopo quello stramaledetto barré?. Alla fine sono letteralmente imploso. Da più di due anni la mia Yamaha giace sul suo sostegno, in un angolo del soggiorno, come il nemmeno tanto costoso oggetto di arredamento cui è stata forzatamente riconvertita. Ogni tanto la osservo, pervaso da deboli sentimenti di rancore, apatia, disillusione.

A quel punto, di solito, mi alzo e vado a camminare per almeno venti minuti. Ognuno mantiene giovani le proprie sinapsi con quello che può.


Fabio Bacà è nato nel 1972 a San Benedetto del Tronto, e vive a Alba Adriativa. Dopo qualche anno di giornalismo, oggi insegna ginnastica dolce. Benevolenza cosmica è il suo primo romanzo, seguito da Nova, entrambi pubblicati da Adelphi.

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