Ci sono autrici nei cui scritti non abita dolore: non perché cieche alla risaputa tetraggine della vita umana, ma perché convinte che la letteratura non sia il luogo di rancori e rimpianti sparsi. La letteratura è bestia di gioia, e gioia deve saper produrre. Tra le loro righe non si troverà il vittimismo acrimonioso di chi medita sull’inevitabile destinazione degli umani alla morte, ma un grido condensato in un linguaggio che rampolla da registri cosmici, gravidi di uno stupore senza lacrime.

«È con un’allegria così profonda. È un tale alleluia. Alleluia, grido, alleluia che si fonde con il più oscuro ululato umano del dolore della separazione ma è un grido di felicità diabolica», recita l’incipit di Acqua viva, nelle cui pagine Clarice Lispector compone l’inno di una vitalità che tutto tocca. Un voler, «di pura gioia, morire», come scrive Cristina Campo in La tigre assenza. E questa vitalità indomita non si esaurisce nella promessa di una qualche felicità futura, ma si rovescia in un’immediata potenza di trasformare il dolore in letizia, con fatica e diligente lavoro che queste letterate conducono senza distrarsi, pagina per pagina, fino all’esaurimento.

L’incontro con le loro parole monda dalle passioni tristi di una letteratura del compianto, che ha a lungo dominato e ancora domina, per gettare chi legge in un paesaggio in cui ciascunə a suo modo trova un linguaggio che chiede sempre qualcosa di più. La lettura di queste autrici, infatti, rimane splendida quanto incomoda, gravata dalla ferma richiesta di entrare in lotta con noi stessə, perché è alla stessa miracolosa trasformazione del dolore in gioia che ci chiamano.

È questa la forza rovinosa che guizza nelle lettere di Anna Maria Ortese a Marta Maria Pezzoli, da lei chiamata Mattia, tra il maggio del 1940 e il gennaio del 1944. Lettere inedite, di recente raccolte per i tipi di Adelphi in Vera gioia è vestita di dolore. Lettere a Mattia.

Pianto gioioso

Non si troverà in queste missive la gioia facile della spensieratezza, della mera assenza di dolore che distrae quel tanto che può, per presto riaffidarci alla sua meschina presenza. Si troverà invece quel pianto gioioso, tanto tipico di Ortese in ogni sua fase, che si accompagna a un’inquietudine metafisica quando mostra che la gioia solo può venire da un’attività intensa, carnale, quasi violenta. È per questa ragione che le lettere a Mattia vanno intese come parole dirette a un’amica, scritte perché vivessero in quello spazio trasparente dove ci si dice per esercitare su di sé una forza di trasformazione.

L’epistolario con Mattia è un lavorio costante ed energico per fare qualcosa di sé parlando all’altra e chiedendo all’altra di parlare, in uno scriversi che sembra sempre troppo limitato e angusto per poter dire tutto: «Dimmi sempre ciò che ti pesa. È questa l’amicizia».

Eppure, anche il dire in sé pesa, perché è l’attività suprema della parola che vuole ricalcare l’ordine esatto delle cose e per questo chiede di fermarsi su di esse, quand’anche penose. Ortese, sempre così attratta dal nucleo ineffabile della realtà, in questa professione d’esattezza supera forse ogni rivale, là dove la sua parola descrive la cosa quasi si posasse su di essa come un vellutato panneggio. Ciononostante, in queste lettere lo sforzo le risulta così pesante che in esse va alternandosi l’impossibilità dello scrivere, perché la parola è ferma («non dirmi di scriverti ancora», «non ho più voglia di scrivere», «scrivere mi uccide, senza esagerazione»), e la sua irrimediabile necessità («son guarita magicamente dalla tentazione del teatro e riamo alla follia la parola mia», «non vorrei mai lasciare di scriverti»).

Prive di parole

Ma perché una persona che di mestiere sceglie lo scrivere non va che lamentandosi della sua gravosità? Il vero è che, come Campo e come Lispector, Ortese sempre aspira a che la parola superi sé stessa e si faccia luogo di una piena commistione con le cose: «Sentivo il desiderio assillante di trasformarmi improvvisamente in onda, in musica, in armonia; abbandonare questo corpo monotono e insignificante, raggiungere e sparire nell’Immenso». E davvero sembra di leggere Lispector quando questa cerca «il modo di riuscire a prendere la parola con le mani» per destituirsi e così «raggiungere il nocciolo e la semenza della vita». Per ambedue, la difficoltà nello scrivere sta nel fatto che la scrittura non fa che aggiungere altro silenzio, ovvero altri territori da dover attraversare con uno sforzo di precisione sempre inadeguato, perché sempre troppo privo di parole esatte.

Ma è proprio per questa connaturata povertà che ho cominciato queste breve scritto con «Ci sono autrici»: sin dalla nascita, la donna avverte questa povertà per costituzione. Come sostengono illustri pensatrici francesi, che qui citare sarebbe lezioso, di fronte al discorso sempre tutto esplicito dell’uomo, il linguaggio della donna vive in primo luogo di silenzi e scarti. L’esperienza straniante di vedersi e leggersi in relazione all’uomo, che la tacita e la rende specchio del suo opposto, chiama la donna a un corpo a corpo con quel linguaggio da cui pure non può uscire. La donna deve allora inventarsi un linguaggio altro, che è l’occasione di uno sforzo inumano (quello appunto di privarsi del solo tratto che ci distingue dagli animali) e consegnarsi a un’esperienza di pura creatività, senza guida sicura né certezza di risultato.

Nel «miracolo di costringere il linguaggio a dire quella che non dice» – come recita l’elegante sintesi di Adriana Cavarero – sta la sorgente di una creatività tanto gravosa quanto carica di energia vitale. L’esperienza di trovare nel linguaggio qualcosa che non si offre a una pura descrizione, perché ancora privo della parola che possa fare al caso, restituisce pieno senso a una letteratura che è invenzione di una forma diversa di essere al mondo.

Ha piena ragione allora Monica Farnetti, curatrice di Vera gioia è vestita di dolore, a insistere sullo scambio di Ortese con Pezzoli, ma anche con altre sue amiche, come prodotto di un rapporto tra donne. Scambio al femminile che fa scaturire un «bisogno assoluto di una spontaneità nativa, di una panteistica, sempre nuova verginità di cuore», come scrive Campo quando introduce Katherine Mansfield, comune ispiratrice di tutte queste vestali della parola impossibile – quella stessa Mansfield che, come Ortese, predicava la piena accoglienza del dolore, la piena immersione in esso, che solo permette d’imporvi un radicale mutamento.

Capacità di convivere

È per questo che chi nelle pagine di Ortese credesse d’intravedere tracce di melancolia, si sbaglierebbe a scambiarla per rassegnata celebrazione del nemico. Non è mai melancolia a buon mercato, magari utile a vincere premi letterari, ma complici segni di un’esperienza non comunicabile. Un’esperienza che spinge, con fatica, ad andare oltre il linguaggio, perché il vero dolore impedisce di parlare e sottrae ogni spinta all’azione.

Proprio per questa capacità di far convivere grida e silenzio, gaudio e pena, levità e prostrazione, la letteratura di Ortese (e quella di Mansfield, e di Lispector e di Campo) serve a ricordarci che il terreno di lotta rimane il linguaggio. Ed è bene ce lo rammenti oggi più che mai, quando il romanzo va rinunciando al suo rigore di stile e l’immaginazione letteraria indulge nello stanco piacere del reality.

Il potere visionario di Ortese rompe il gioco di specchi cui troppo ahinoi si è fatta l’abitudine quando, anziché a un confortante rispecchiamento, chiama a un’anamorfosi: lo sforzo di fare un passo più in là, per vedere rivelata una figura piena – che in essa si riveli il sinistro teschio degli Ambasciatori di Holbein o la ben più edificante, e gioiosa, cupola di Andrea Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma.

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