Qualche tempo fa un autore italiano, Paolo Di Paolo, ha apposto una specie di marchio di garanzia sotto al titolo del suo libro Romanzo senza umani (Feltrinelli 2023). «Questo romanzo non è prodotto da un’intelligenza artificiale»: con questa frase voleva dire che la sua scrittura nasceva esclusivamente «dalle sue paure, dalle sue ansie, dalla sua capacità verbale» (così in un’intervista a Giovani Reporter 2 luglio 2024) e chiarire che oggi si può incorrere, anche quando si legge, in “materiale umano” e “non umano” e il suo, ci teneva a sottolinearlo, era frutto solo del suo ingegno.

Con lo stesso tipo di retorica, ma rovesciata, il quotidiano Il Foglio ha pubblicato per un mese (dal 18 marzo scorso) un supplemento «interamente scritto dall’intelligenza artificiale». Come ha spiegato il suo direttore «noi giornalisti ci limiteremo a fare le domande, l’Ai ci darà tutte le risposte e ci aiuterà a spiegare come si può far passare l’intelligenza artificiale dallo stato gassoso, ovvero quello della teoria, a quello solido, ovvero quello della pratica».

Il mondo delle lettere è purtroppo popolato ancora dallo stereotipo dello scrittore “dannato” (non è il caso di Di Paolo, mi preme specificare, uso un’iperbole generica), sempre in bilico tra genio e autodistruzione, preso quasi sempre male tra la solitudine del creatore e il disprezzo del mondo che non lo capisce; e quello del giornalismo risente ancora della figura mirabilmente tratteggiata da quel genio di Billy Wilder in Prima Pagina (1974), il cronista con la sigaretta tra le labbra che picchia sui tasti della macchina da scrivere – oggi del computer – con il direttore che urla e il telefono che squilla.

Il giornalista, fratello proletario dello scrittore maledetto, solo con meno tempo per cesellare metafore e più bisogno di far quadrare i conti: due facce della stessa retorica. Perché il romanzo scritto senza e il giornale scritto tutto con l’intelligenza artificiale sono la stessa cosa, pur partendo da una premessa opposta? Ambedue sono impegnati a costruire e a rendere concreta l’immagine di un falso nemico, inscenando o promettendo un duello eroico, ma con la risposta preconfezionata che ha dato origine, nello scrittore, al tenersi alla larga dall’usare l’Ia, e nel giornale quotidiano dall’utilizzarla con un entusiasmo eccessivo. 

Nell’ammirazione bipartisan per questo strumento digitale (Di Paolo: «Non ho nessuna angoscia apocalittica o antitecnologica verso l’intelligenza artificiale; non si può rallentare il progresso, al massimo si può governare l’esito di una conoscenza tecnica o scientifica»; Claudio Cerasa, direttore: «Un altro Foglio fatto con intelligenza. Ma non chiamatela artificiale») il meccanismo è lo stesso: sancire alla fine la vittoria del genio umano contro la macchina senz’anima.

L’esperimento 

Ed è un bel modo di spostare l’attenzione dal vero problema del giornalismo oggi, che non sembra l’Ia, ma il fatto che sempre più testate si stanno trasformando in contenitori di comunicati stampa, editoriali gridati e titoli clickbait. L’importante è dare l’impressione di una battaglia epica, cavalcando la modernità, per un valore da difendere: ora vi dimostro, per un mese, tutti i giorni, che gli articoli scritti dai giornalisti in carne e ossa del Foglio, sono migliori di quelli scritti dall’intelligenza artificiale. Tornate a leggerci con più rispetto, per favore.

Nei commenti che i lettori hanno inviato al loro quotidiano ce n’è già uno che prefigura questa tesi: «Vagare per queste pagine senza firma rende tutto più difficile. Non si potrebbe invece di “Articolo scritto dall’Ia” scrivere per esempio “Da domande di Mariarosa Mancuso a Chat Gpt?” insomma qualcosa che distingua un articolo dall’altro in termini di “da dove viene?”».

Ma il sottotesto più velenoso di tutto questo teatrino è ancora un altro: se dobbiamo dimostrare che il giornalismo umano è migliore, siamo proprio sicuri che sia vero? Lo stesso dubbio viene dinanzi all’utilizzo del quotidiano per raccontare ai lettori i fatti propri nella convinzione di rendere un servizio. 

Un terreno scivoloso 

Alla fine, l’esperimento di un giornale interamente scritto dall’Ia si gioca su un terreno scivoloso: e se i testi prodotti risultassero più accurati di quelli scritti da giornalisti rimasti indietro? E se l’Ia riuscisse a evitare alcune delle trappole in cui gli umani sono soliti cadere, come i titoli sensazionalistici, gli articoli basati su opinioni spacciate per fatti, o i pezzi scritti con l’aria di chi ha già scelto il colpevole prima ancora di leggere le fonti? Il rischio è grosso: mentre il giornalismo umano si affanna a dimostrare che è insostituibile, il giornalismo artificiale dimostra, suo malgrado, che forse il vero problema non è l’Ia, ma il livello a cui è sceso il mestiere oggi.

Alla fine del mese di prova del Foglio torneremo al caro vecchio giornalismo alla Billy Wilder, quello che non resiste a schivare la verità quando intralcia il titolo perfetto, o quello abituato a ignorare una notizia per non pestare i piedi al potente di turno? Paolo Di Paolo diceva che l’intelligenza artificiale va bene quando interviene in campo biomedico ma «in quello della creatività c’è un rischio già in atto, quello della confusione tra ciò che è prodotto dall’umano con ciò che è prodotto dal non umano».

Un’ingenuità che presuppone si possa tracciare un confine netto tra “umano” e “non umano”, dato che non solo l’arte, la scrittura, la musica ma anche la scienza, la medicina, la genetica sono da sempre, e da prima che esistesse l’Ia, frutto di processi di rielaborazione, di influenze, di contaminazioni, anche ottenute con macchine.

Contesto e trasparenza

Mi viene in mente quando, a Parigi, passo davanti all’Ircam, vicino al Centre Pompidou: Pierre Boulez lo fondò, addirittura nel 1977, con lo scopo di esplorare le frontiere dell’integrazione tra musica, arte e tecnologia. Non abbiamo forse sempre utilizzato strumenti per accrescere e migliorare le nostre capacità? Non sono serviti a questo il torchio di Gutenberg, la macchina da scrivere, il montaggio cinematografico fino ai software di scrittura assistita? Se l’intelligenza artificiale va bene per tradurre perché non dovrebbe andar bene per rielaborare materiali esistenti con quella sua rapidità che prima era impensabile? Dove starebbe il rischio di confusione tra “umano” e “non umano”?

Gli articoli che Il Foglio ha pubblicato con la dicitura “Testo realizzato con Ai” non sono altro che articoli pregressi scritti da giornalisti umani, che l’Ia ha riassemblato e riproposto secondo schemi algoritmici e probabilistici. La macchina si nutre di ciò che i giornalisti prima di lei hanno letto, assimilato, rielaborato, scritto: dove starebbe il pericolo? E perché dedicare a questa ovvietà un intero mese di esperimento di un giornale “scritto dall’Ai”? Sai quanti articoli, in tutto il mondo, vengono scritti proprio ora da giornalisti intelligenti che usano l’Ia?

Il vero valore di un libro o di un articolo sta senza ombra di dubbio nell’autore, ma anche nel contesto, nella trasparenza con cui sono scritti e in come questi strumenti vengono utilizzati. Scritti con l’aiuto dell’Ia o senza, siamo sempre noi, come lettori, a dare significato a ciò che leggiamo, interpretandolo nella prospettiva che la nostra esperienza ci consente.

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