Nel corso di questa intervista Nicola Cosentino mi ha detto che dovesse dare una definizione al suo ultimo romanzo Le tracce fantasma, appena pubblicato da Minimum fax, direbbe che si tratta di una commedia. E a fine videochiamata io ci ho riflettuto. Di certo prima che me lo dicesse lui non avrei pensato di etichettarlo come tale, ma dopo mi sono detto che sì, in effetti Le tracce fantasma è anche una commedia. Anche perché credo che la miglior definizione per l’ultima fatica di Cosentino sia una commedia dalle tinte cupe.

Valerio Scordìa, ironico trentottenne, attraverso degli episodi allucinatori – in apparenza scatenati dalla musica; con cui ha a che fare ogni giorno, essendo un critico – torna al passato. Non rivive il suo, ma quello della sua ex più importante: Anna. E in un miscuglio di nostalgia e impotenza, di accuse a sé stesso ed errori a cui non si può porre rimedio, Valerio cresce, si forma. È un romanzo permeato dal dolore, questo – dolore per ciò che è passato e non sarà mai più, per l’abbandono, per la solitudine. Ma è pure luminoso, arioso, fresco: è pure una commedia, sì.

Nel primo degli episodi di Valerio incontriamo una Anna ragazzina. E la giovinezza poi torna con Alfredo. Perché racconti l’adolescenza attraverso lo sguardo di Valerio, un uomo di quasi quarant’anni?
Perché adolescenza e prima età adulta sono fasi fondamentali. Per intenderci, pensa al romanzo di formazione: le tappe di partenza e di arrivo sono queste. A me interessava fare un confronto tra quando il processo comincia e quando si possono fare i primi bilanci di ciò che ci è successo.

Anna e Alfredo a che punto si trovano di questo percorso?
Stanno traversando, inconsapevolmente, il frangente in cui le cose ci sfuggono di mano; passaggio che avviene per tutti. Paradossalmente da giovani viviamo i fatti più importanti della nostra vita. Accadimenti che compongono noi stessi e la nostra esistenza, e che poi negli anni avvenire cerchiamo ancora e ancora, nel tentativo o di ripeterli o di interpretarli.

Ma perché li racconti dal punto di vista di Valerio, questi adolescenti?
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Perché volevo che Valerio osservasse questa fase attraverso la sua disillusione. Una delle domande del libro è: dove vanno a finire tutte le cose che abbiamo perso, tutte le persone da cui ci siamo allontanati, tutte le esperienze di cui ci rimangono solo ricordi sbiaditi? Tornando al passato con questi suoi episodi (e vivendo i momenti in cui Anna effettivamente perde alcune cose), Valerio cerca di darsi una risposta, e lo fa con gli occhi velati dalla disillusione tipica degli uomini della sua età.

Sono così importanti, secondo te, le cose che abbiamo avuto e perso?
Ma sì, certo. In fondo, è questo genere di cose che ci forma davvero.

Che intendi?
Che le cose, le persone, i posti che abbiamo abbandonato, o da cui siamo stati abbandonati, sono quelli che ci hanno formato maggiormente.

Credi si cresca solo nella dimensione dell’abbandono, quindi del dolore?
Sì e no. Siamo certamente più allenati a ragionare intorno al dolore ma non è detto che si possa crescere solo soffrendo. Anzi, credo che uno degli aspetti più importanti della formazione di ognuno sia la commedia. Il punto, però (e qui mi riferisco soprattutto ai momenti più felici), è che raramente riusciamo a intuire, a intuire davvero, cosa stiamo vivendo mentre lo stiamo traversando.

Questo discorso mi riporta a un aspetto fondamentale del romanzo. Il tuo protagonista, come molti di noi (io per primo), deve riattraversare – con questi episodi allucinatori che lo riportano al passato – quel che ha vissuto per capirlo sul serio. Pensi che la comprensione, sia di noi stessi sia anche di quel che ci succede, possa avvenire solo in retrospettiva?
Non necessariamente, però credo che un’operazione del genere sia quella più comune. Pensa alla letteratura stessa: la maggior parte dei romanzi è scritta al passato. È più facile tirare le somme di ciò che è compiuto, relegato al passato. Il presente, di fatto, per la sua natura labile, non esiste.

Hai menzionato la letteratura. Che ruolo ha l’arte in questo discorso?
Ha un ruolo fondamentale. Ci dà un’impressione immediata non su di noi, ma su altro. Ed è con l’elaborazione di questa impressione, che necessariamente deve avvenire in retrospettiva, che siamo poi capaci di capire qualcosa di noi. Comprendere la vita degli altri, come spettatori passivi, ci dà la possibilità di intuire qualcosa pure di noi stessi. Si tratta chiaramente di un surrogato di un orgasmo che non riusciamo a raggiungere nella nostra vita ma è comunque in qualche modo d’aiuto. Per rispondere alla tua domanda, quindi. Vivendo una determinata esperienza, la interpretiamo nel miglior modo possibile? Per me, no. Servono tantissime stesure perché possa accadere.

Milano è molto presente nel tuo romanzo. Che rapporto hai con la città, simile a quello di Valerio?
No, direi di no. Amo Milano, la amo molto. Mi ci sono trasferito stabilmente due anni fa, dopo degli anni all’estero - ho fatto un dottorato in Portogallo ma la mia fidanzata viveva già a Milano e la frequentavo spesso, così alla fine ho deciso di venirci pure io e da allora non l’ho mai lasciata. Milano per me è la città ideale e incarna, in qualche modo, anche la mia idea di romanzo. Niente affatto eclatante, sicura di sé, apparentemente dispersiva ma non davvero. Ti dà modo di riflettere su te stesso senza sovrastarti, ti offre molto, è aperta.

Ne sei innamorato sul serio. Lo avverto.
Sì, sul serio. Cosa che all’inizio mi ha pure un po’ sorpreso: ero convinto che la città in cui avrei vissuto fosse Roma, e invece.

Perché?
È una convinzione che si è insinuata nel mio cervello quand’ero bambino. Da piccolo accendevo la tv, guardavo Un medico in famiglia e pensavo: «Gli adulti vivono a Roma, quindi da adulto ci vivrò anch’io». Ho amato tanto pure Roma e l’ho frequentata molto, specie negli anni universitari, ma a Milano sto bene.

Di nuovo sul passato e le sue eco. Jimmy, un amico di Valerio, dice al tuo protagonista che ogni tempo ha un suo costo e che il passato è in assoluto il più economico. Sei d’accordo con lui?
Dipende tutto da te, e dagli strumenti e dalla forza emotiva di cui disponi. Per molti è il futuro il tempo più economico: non richiede altro che uno sforzo di immaginazione. Mentre per altri è il passato: rifugiarsi nei bei ricordi resta il più semplice dei modi per fuggire i dolori del presente. Dipende tutto dal tuo approccio all’esistenza, credo. Prendi la nostra generazione, ad esempio, mia e tua: per noi costruire il futuro non è mica semplice. Alla mente, provandoci, corrono subito la crisi climatica, economica e politica. Per forza per alcuni il passato è il tempo meno costoso. Questo, naturalmente, ha un impatto anche sul piano emotivo: se sei precario nei fatti, tendi a esserlo pure emotivamente. Certo è che se provi nostalgia per quello che non hai più, frequentare il passato fa male.

Un altro personaggio, Mattia, dice invece a Valerio ci siamo convinti che soffrire fosse in assoluto la tua cosa preferita. Nel tuo protagonista c’è, in effetti, una certa propensione all’autosabotaggio.
È qualcosa che lucidamente sento lontano da me, ma a quanto pare mi sbaglio perché l’autosabotaggio, che opera Valerio, nel romanzo è molto presente. Io, in realtà, credo di essere più ottimista di lui.

Davvero? Parliamo da mezz’ora e ho avuto un’impressione diversa.
Sì, perché sono un falso pessimista. So di dare spesso la sensazione di esserlo, un pessimista, ma così non è. Raramente quando mi approccio a qualcosa mi ritrovo a pensare andrà male, sono sempre piuttosto positivo e non mi abbatto tanto facilmente. Certo, non sono neanche uno che sta continuamente a dirsi oddio, che gioia straripante!, ma no, non mi butto giù come fa Valerio.

Valerio vive in una stanza degli spiriti in cui si chiede continuamente cosa sarebbe successo se. Non so fino a che punto sia salutare come cosa, ma in effetti lo facciamo tutti. A te capita spesso?
No.

Secco.
Ma è vero!

Be’, allora dimmi qual è il tuo segreto. Io lo faccio continuamente.
Chessò, credo dipenda dal fatto che ho un rapporto piuttosto sereno con tutto quello che mi è successo, o che ho fatto, finora. Le cose che mi sono capitate, o che ho fatto, appunto, che siano tristi o felici le ritengo comunque formative. E crescere, formarsi, per me è molto importante. Per questo non soffro quella inquietudine particolare legata al what if? E poi, credo ci sia una forte retorica legata al rimpianto. Terrorizza tutti al punto tale che ormai la gente sente quel che non ha vissuto come fossero arti fantasma. La realtà però è che siamo noi, proprio noi che ingrandiamo le cose mai successe pensandoci ancora e ancora.

Ultima domanda. Nicola, hai settant’anni ed è domenica mattina: con chi sei, dove sei, che fai?
Ho freddo, questo è certo: sono un tipo freddolino già oggi, figurati quando avrò settant’anni. Quindi ho un cardigan addosso. Mi trovo in una bella casa, luminosa per tutta la luce che entra, e sono tranquillo. E poi, vediamo… ecco: sarò meno curioso. Spero di arrivarci con meno curiosità, a settant’anni. Vorrà dire che avrò conosciuto e visto tante cose, che mi sarò dato delle risposte.


Le tracce fantasma (Minimum fax 2022, pp. 391, euro 18) è un romanzo di Nicola H. Cosentino

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