Durante il panel del Miu Miu Literary Club su Sibilla Aleramo, che condividevo con Selby Swartz e Xiaolu Guo, mi è stata fatta una domanda sulla maternità. Io tremo al suono delle domande sulla maternità, tanto quanto mi capitava a vent’anni con le domande sulla giovinezza. È perché sono domande sottovuoto: al loro interno, stipate, hanno un’enorme quantità di implicazioni, ferite sociali, debolezze del sistema legislativo.

Maternità, in Italia, è una parola pesantissima, una parola dinamite, una sacca tossica di sessismo, un orologio fermo su una crepa inflitta da un sistema stagnante, un buco nero che contiene e deforma le tonnellate di problemi irrisolti del microcosmo italiano.

Maternità: dovrebbe evocare qualcosa di dolce e mistico, con quella M che è il primo fonema infantile, e quel "ma” sanscrito che significa “creare”, eppure, quando la domanda mi si è aperta addosso come un vaso di Pandora pretendendo una risposta, ne sono uscite a fiotti tutte le brutture al cui interno, pur non pensandoci, io ovviamente esisto mentre scrivo.

Religione

Il punto è proprio questo: si scrive in un beato stato virginale di decontestualizzazione, sviscerando per la gioia di sviscerare, immersi in un non-luogo di pensiero astratto, e solo dopo, quando il romanzo viene consegnato al mondo, ci tocca assumere la responsabilità di averlo messo proprio in questo mondo qui, e non nell’altro citato da Cristina Campo, quello delle cose invisibili di cui anche Anna Maria Ortese si curava unicamente, snobbando il reale.

Il romanzo, durante la sua lavorazione, è puro nella sua irrealtà, intonso, incontaminato dallo sguardo che in seguito sarà posato su di esso. Uno sguardo che non ha a che fare soltanto con la materia letteraria — quel bolo di inconscio collettivo e idee personali sul mondo di cui è fatto il tessuto di un libro — ma anche sulla necessità, inevitabile, di contestualizzare questo bolo nello spaziotempo in cui è stato composto.

E allora, ogni volta che mi si chiede di maternità, in Italia in particolare — Paese dove la maternità occupa il posto che altrove occupa la religione — mi sento immediatamente costretta a uno slittamento di sguardo, come quelle bambole grottesche che vanno molto di moda, le Blythe, a cui cambiano gli occhioni glitterati con un tiro di cordicella. Da azzurro a nero, a rosso, a stellato. Da inconscio e consciamente politico, nel mio caso.

La domanda partiva da uno dei temi ricorrenti dei miei libri, il rapporto madre-figlia, culminato (e in un certo senso terminato) nel mio romanzo Bambini di ferro, La nave di Teseo, in cui raccontavo di madri androidi: nel libro il governo giapponese, allarmato dall’infelicità dilagante e dall’alto tasso di criminalità, e riconducendo la deriva a un’equazione freudiana di puericultura fallimentare, progettava “madri artificiali” programmate a un accudimento perfetto, credendo che sarebbero diventati, in virtù di quella perfezione, adulti felici e produttivi.

Si trattava certamente di una distopia, ma, nelle mie intenzioni, solo leggermente scollata dai probabili esiti (letterali e metaforici) delle scelte politiche e ideologiche di cui ben sappiamo.

Automatica

L’idea di una maternità automatica, che derivi da un’imposizione, ci è molto familiare: si tratta di uno dei cardini della struttura patriarcale della famiglia. Una donna di Sibilla Aleramo è il libro che ha fornito le parole per dire cosa accadeva alle donne all’interno delle anguste esistenze a cui erano costrette.

Ogni stato d’animo, così come ogni forma di oppressione, inizia davvero a esistere quando viene affidata alle parole. A quel punto, siccome esiste, in virtù di quello sguardo che distanziandosi da essa le ha dato parole esatte, una condizione può diventare ingiusta, può diventare un problema, e dunque può esistere una ribellione.

Questo non vale certamente solo in positivo. Il significato delle parole, diceva Humpty Dumpty in Alice nel paese delle meraviglie, dipende da chi è il padrone. Da chi, ovvero, ha causato l’emergere di una parola, e dunque dalle sue intenzioni. Penso alla parola “natura”, che in Cina e in Giappone non esisteva fin quando, nell’Ottocento, il contatto brutale con l’Occidente non portò idee di dominazione del mondo naturale a vantaggio dell’uomo.

Prima non c’era la parola perché l’essere umano di quella parte del pianeta non aveva trovato ragioni per staccarsi da essa, poi lo stacco, in virtù di una arrogante appresa intuizione sull’utilità di questa dominazione. La letteratura ha il potere di creare la distanza giusta tra la vittima e l’habitat della persecuzione; in quella distanza nasce la narrazione.

La narrazione di Una donna, Feltrinelli, non risparmia nulla della vita di Aleramo, e in particolare del suo precoce e terribile matrimonio. Lo stupro subito, la clausura forzata, l’espressività angusta a cui era costretta nei suoi comportamenti e comunicazioni. Come gli attuali stream of consciousness dei social media, l’auto-confessione ha il duplice scopo di denunciare e lenire. Così, attraverso la sua stessa storia Sibilla riesce infine intagliare un’individualità sul legno duro di quel sistema mortificante.

La maternità è soltanto parte di questa sua ricerca: quando scopre di essere incinta, decide che quella nascita sublimerà ogni sua frustrazione, dando finalmente uno scopo alle sue meste giornate, ma presto scoprirà che per lei non è sufficiente, che il suo processo di individuazione abbraccia la maternità ma non vi si esaurisce. Che a dire tutto questo — che a rendersi, appunto, padrona delle sue parole e del suo destino — fosse una donna è ovviamente ciò che ne decretò l’importanza il successo.

Sibilla fa parte della grande tradizione di donne che, scrivendo, hanno creato una cesura importante nel loro mondo di maschi, che è stata spesso, oltre che politica e letteraria, anche linguistica (è il caso di Murasaki Shikibu, dama di corte che scrivendo nell’anno 1000 in giapponese La storia di Genji, il primo romanzo in assoluto, non solo diede inizio alla grande tradizione letteraria giapponese ma anche al processo con cui la lingua nipponica si affrancò dal cinese, lingua dominante).

Quando al panel mi è stata fatta quella domanda sulla maternità, ho avuto una specie di corto circuito. Quel mio timore, quel piccolo panico che esalava dal confine tra il tempo solitario della scrittura e il tempo del racconto pubblico su di essa, ha preso subito, nei miei pensieri, la forma dell’ottuso feto di gomma che verrà presto sventolato nei consultori davanti agli occhi di donne intenzionate ad abortire.

Chi proteggerà, tra loro, quelle che non avranno la forza di resistere alla manipolazione, di aggrapparsi alla propria volontà, al proprio diritto di autodeterminarsi? Chi le proteggerà da se stesse, dall’abuso subdolo e familiare di obbedire, e dalle ragioni che le hanno portate a decidere di non portare avanti la gravidanza? E, poi, anno dopo anno, chi proteggerà il figlio da quelle ragioni, e da una madre che non lo voleva davvero?

Senza cura

In un paese così ossessionato dalla fornitura meccanica di prole, non c’è posto per la cura, per le sfumature e le complessità dell’amore. Questo è un Paese in cui l’amore è obsoleto, ridondante, come lo era nel Giappone di Bambini di ferro.

Una donna, qui, non deve desiderare un bambino per averlo (e il desiderio è il necessario preludio all’amore), deve fornirlo alla patria senza troppa autoanalisi, e invece due donne che progettano meticolosamente e realizzano un figlio insieme sanno che se la madre biologica dovesse morire il bambino potrebbe andare in adozione.

Perché maternità, in Italia — questa parola pesantissima, questo vaso di Pandora concimato da narrazioni retoriche e retrograde — non ha a che fare con la profondità dell’affetto, ma con la superficie ragionieristica del gesto produttivo. E allora si dice ancora utero in affitto, non per una reale critica alla maternità surrogata, ma all’idea agghiacciante che la donna, del suo corpo, possa davvero fare ciò che vuole.

Così, tra un monologo censurato e tutti quelli che per amarezza non saranno mai scritti, in un microscopico mondo ossessionato dal fatturato e insensibile alla sostanza, mentre l’Europa avanza noi andiamo sempre più a picco, e in quest’acquetta cupa fatta dalle nostre lacrime resterà a galla solo una bambola, un piccolo demenziale feto di gomma. 

© Riproduzione riservata