È impossibile chiudere gli occhi di fronte a The Voice of Hind Rajab.  Coraggiosamente co-prodotto da star e autori del calibro di Brad Pitt, Joaquin Phoenix, Rooney Mara, Jonathan Glazer e Alfonso Cuarón, il film della tunisina Kaouther Ben Hania, candidata all’Oscar per Quattro figlie, mescola la realtà degli audio originali della bambina e la finzione dello psicodramma (vissuto dai bravissimi attori e di riflesso anche dallo spettatore) per raccontarci le drammatiche ore che hanno preceduto la morte inconcepibile di Hind Rajab, la bambina di sei anni intrappolata insieme ai corpi senza vita dei suoi familiari in una macchina crivellata dai colpi dell’esercito israeliano.

Applausi e pianti alla proiezione stampa e una standing ovation in conferenza rendono giustamente The Voice of Hind Rajab il film più importante di Venezia 82.

L’autrice ha raccontato di aver scoperto la voce della bambina sui social mentre era a Los Angeles durante la sua campagna Oscar «Nel momento in cui l’ho sentita, qualcosa dentro di me è cambiato. Ho provato un’ondata travolgente di impotenza e tristezza: non intellettuale, ma fisica. Come se il mondo si fosse leggermente inclinato dal suo asse».

La voce di Gaza

«La voce di Hind, in quel momento, è diventata qualcosa di più della supplica disperata di una bambina. Sembrava la voce stessa di Gaza, che chiedeva aiuto nel vuoto, accolta con indifferenza, accolta con silenzio», ha detto.

«Era una metafora dolorosamente reale: un grido di soccorso che il mondo poteva sentire, ma al quale nessuno sembrava disposto o in grado di rispondere. Ho contattato la Società della Mezzaluna Rossa Palestinese per ascoltare la registrazione completa. Durava più di settanta minuti, settanta minuti di attesa, di paura, di tentativi di resistere. È stata una delle cose più difficili che abbia mai ascoltato».

Racconta sempre Ben Hania: «Ho poi iniziato a parlare con la madre di Hind e con le persone che erano dall’altra parte del telefono, dalle loro parole ho iniziato a costruire una storia. Una storia radicata nella verità, portata dalla memoria e plasmata dalle voci di coloro che erano lì. Il film nasce da una scelta irrazionale mossa da un sentimento di impotenza. Volevo onorare la sua voce, è una dei tanti che non ha voce, Gaza non ha voce. Sarebbe stato un tradimento doppiarla, nessuna attrice avrebbe potuto farlo».

Il ruolo del cinema

È da meno di un anno che la stampa mainstream porta in prima pagina gli orrori perpetrati a Gaza, i giornalisti stranieri sono personae non gratae sulla Striscia e gli unici a darci notizie, rischiando la vita ogni giorno, sono i reporter palestinesi. E se il potere del cinema potesse colmare le lacune dell’informazione?

«Credo che il cinema offra qualcosa di diverso. Non racconta, ricorda. Non discute, fa provare emozioni. Ciò che mi ha tormentato non è stata solo la violenza di ciò che è accaduto, ma il silenzio che ne è seguito. Non è qualcosa che un reportage può contenere. È qualcosa che solo il cinema, con la sua quiete e intimità, può tentare di racchiudere. Così mi sono rivolta all’unico strumento che ho (il cinema) non per spiegare o analizzare, ma per preservare una voce. Per resistere all’amnesia. Per onorare un momento che il mondo non dovrebbe mai dimenticare».

«Questa storia», ha aggiunto la regista, «riguarda anche la nostra responsabilità condivisa, il modo in cui i sistemi falliscono nei confronti dei bambini di Gaza e come il silenzio del mondo sia parte della violenza. Sono una regista, non faccio inchieste. L’indagine sui fatti è stata realizzata da testate come il Washington Post. È in corso una guerra anche contro la verità. Come attivista non voglio che i miei film siano distribuiti in Israele». 

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