Le arti hanno avuto questo ruolo nella storia, spiazzando, aprendo ad altri punti di vista, anche prefigurando mondi di maggiore giustizia. Oggi, una parte significativa delle arti contemporanee, pure frammentata, sfida il pensiero dominante, allerta sui rischi globali, disvela ingiustizie e, nei territori, accompagna spesso processi di emancipazione dalle subalternità. Ma di rado offre profezie utopiche
La forza della nuova cultura autoritaria si manifesta anche nella capacità di rovesciare il significato di termini che erano diventati la bandiera delle forze progressiste. Ne è un esempio, specie negli USA, la torsione peggiorativa del termine woke, che era diventato rappresentativo della “consapevolezza” degli abusi di potere compiuti nella storia sui terreni razziali e di genere. Oggi, esso viene ritorto come il frutto di un’ideologia moralizzante e intollerante, un’esibizione di virtù e di attivismo performativo volto a mortificare le persone del popolo. In questa integrazione della matrice autoritaria nella matrice neoliberista esistono potenziali tensioni.
[…] Ma il compromesso è possibile, anzi già visibile. Avviene in una narrazione crescente dove non tutte le persone sono libere nella stessa misura e in cui la libertà del commercio, degli approvvigionamenti e degli investimenti diretti viene “ovviamente” limitata anch’essa ai casi in cui è di “nostra” convenienza e va dunque protetta a ogni costo. Questo compromesso e le sue conseguenze nelle relazioni internazionali possono produrre nuove e crescenti tensioni, che accrescono le possibilità di conflitto militare, come mostra l’escalation di guerre e massacri. Ed ecco, allora, affacciarsi un’ulteriore integrazione nel senso comune, che renda quella possibilità normale: il linguaggio bellico. Come anticipato, si diffonde così l’identificazione della sicurezza con la difesa armata dei confini nazionali, anziché primariamente con la costruzione delle relazioni internazionali che rimuovano alla radice le cause dell’insicurezza. La guerra viene presentata come unica razionalità possibile, visto che la pace è impossibile. Fino a considerare il riarmo come inevitabile e a sdoganare l’armamento atomico come strumento contemplabile di conflitto, una rottura, questa, assai profonda con il linguaggio della seconda parte del ‘900. Tanto grande può essere la forza del senso comune.
Come sarà mai possibile cambiare le cose verso la giustizia sociale e ambientale, se non cambia il senso comune prevalente, gli occhiali con cui interpretiamo la realtà e avvertiamo cosa è giusto o ingiusto? Il significato che la maggioranza di noi attribuisce istintivamente a parole come “pubblico”, “merito”, “libertà”, “autorità”, “identità”, “sicurezza”? Per cambiare il mondo non bastano buone proposte se la loro comprensione e valutazione è distorta alla radice dal senso comune prevalente.
Le politiche pubbliche e le azioni collettive che vogliano oggi mettere al centro la ricostruzione della giustizia sociale e ambientale devono affrontare con urgenza il senso comune maturato nell’ultimo quarantennio e ora in ulteriore involuzione. Questo senso comune prevalente si erge come ostacolo potente di fronte a ogni tentativo di raccogliere su quelle politiche un adeguato consenso, un blocco sociale sufficientemente robusto da ottenerne l’attuazione e persino di aprire su di esse un confronto ragionevole, capace di prendere in considerazione valori e punti di vista altrui. Ecco perché ogni disegno di politica pubblica, per quanto fondato e rigoroso deve contemporaneamente porsi l’obiettivo di cambiare, o almeno scuotere, il senso comune prevalente relativo a parole/profili essenziali come quelli evocati. Come realizzare questo cambiamento?
L’arte, le arti, i processi artistici possono aiutare a produrre questo strappo. Le arti hanno avuto questo ruolo nella storia, spiazzando, aprendo ad altri punti di vista, anche prefigurando mondi di maggiore giustizia. Oggi, una parte significativa delle arti contemporanee, pure frammentata, sfida il pensiero dominante, allerta sui rischi globali, disvela ingiustizie e, nei territori, accompagna spesso processi di emancipazione dalle subalternità. Ma di rado offre profezie utopiche. E fatica a intaccare il senso comune prevalente. Molte organizzazioni sociali e di cittadinanza, a volte anche politiche pubbliche, si rivolgono alle arti, ma di rado hanno come obiettivo intenzionale il cambiamento del senso comune. E quasi mai se ne valutano gli effetti. La stragrande parte delle esperienze artistiche contemporanee alimenta le idee, la cultura e il senso comune di ampie minoranze. Ma, appunto, di minoranze si tratta. Il senso comune prevalente instillato dal neoliberismo, invece, tiene e si modifica solo per evolvere negli schemi mentali che animano e sostengono la dinamica autoritaria in atto, in una direzione opposta a quello in cui spingono i variegati filoni dell’arte contemporanea: criminalizzazione dei migranti; ritorno di un “orgoglio dell’Occidente”; scherno delle preoccupazioni climatiche; rinunzia alla ribellione e alla speranza di giustizia sociale.
Eppure, la vocazione territoriale delle arti contemporanee, sotto alcune condizioni, può rivelarsi un’opportunità per raggiungere il senso comune prevalente e cambiarlo. Eppure, mobilitazioni politiche esistono, in scale diverse, come esistono esperienze artistiche di squarcio, e talora le due cose marciano addirittura assieme. Il fatto è che la scala, la frequenza, la diffusione, la continuità di queste esperienze sono inadeguate. E assolutamente inadeguato è il confronto, il dibattito pubblico su queste esperienze. Ecco, dunque, emergere lo scopo di queste pagine: sulla base dello scavo che abbiamo compiuto a cavallo di etica, estetica e scienze cognitive, suscitare il confronto ragionevole e argomentato che oggi manca sulle esperienze delle arti e della politica e sulla loro relazione. Comprendere, sulla base del materiale raccolto e ascoltato, alcuni tratti delle arti contemporanee che ci aiutino a intravedere come un loro rinnovato rapporto con le mobilitazioni e la politica possa contribuire alla contesa per il senso comune prevalente.
da Squarci. L’arte nella contesa per il senso comune, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2025
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