Ombre rosse e Linea d’Ombra, riviste storiche; dodici anni alla direzione di Rai Radio 3; altri quattro al vertice del Teatro di Roma; oggi presidente del Centro per il libro e la lettura con la rassegna Libri come all’Auditorium. Il dialogo con Marino Sinibaldi non può che muovere dai “titoli ed esami” di chi ha goduto degli osservatori giusti per farsi un’idea dell’Italia di prima e magari del dopo.

E allora partiamo da qui, dall’aggettivo che useresti per raccontare il paese dopo la prima pandemia della nostra vita?

Ti direi un sostantivo, fragilità. In primo luogo la fragilità umana mostrata spietatamente dalla pandemia, quella vulnerabilità della nostra specie che non possiamo dire di aver rimosso o dimenticato, non siamo così scemi, ma non immaginavamo che nel nostro tempo potesse avere queste dimensioni apocalittiche. Poi c’è la fragilità del nostro sistema sociale, della rete sanitaria, dei modelli economici tossici come quelli della movida, degli schemi di interpretazione, delle forme di relazione, pensa a quella tra generazioni. La sfida è terribile e occorre una sorta di indulgenza reciproca perché per tutti – individui e istituzioni – è molto difficile essere davvero all’altezza; ma proprio per questo è apparsa più evidente la necessità di idee, paradigmi, comportamenti nuovi. E la terza fragilità riguarda proprio l’insieme delle nostre culture politiche, i linguaggi comuni che abbiamo praticato (pensa ai social!), la stessa funzione della comunicazione che mi è sembrata impazzire

Tocchi subito il tasto della comunicazione e lo capisco perché spesso in questi mesi ho ripensato a una statistica: ci sono solo due anni nei quali la saggistica ha sopravanzato la narrativa e sono il 1945 e il 1946. Il che non stupisce, perché se spegni la luce per una ventina d’anni, appena la riaccendi il bisogno di recuperare il tempo e le idee può farsi incontenibile. Te lo chiedo perché una volta hai detto che la tua fortuna è stata leggere molto, ma di averlo fatto quando le piazze si riempivano di persone. Insomma, senza libri saresti rimasto un “ignorante”, ma senza quelle piazze avresti letto “male”. Pensi che oggi la pandemia potrebbe avere la stessa funzione di quelle piazze?

Difficile fare confronti specie se si è diventati adulti in un periodo irripetibile da questo punto di vista, per il legame che pareva ovvio tra la crescita personale e la dimensione collettiva, un intreccio che ogni generazione ha misurato in modo diverso. E poi quello che un tempo era lo spazio della lettura e dei libri oggi è conteso, è eroso e insieme arricchito da una quantità di esperienze e mediazioni diverse. C’è però un elemento che mi sembra immutabile. E cioè che la lettura in pandemia ha resistito per la sua felice ambivalenza. Da un lato, un dispositivo di evasione dall’angoscia che ci stringeva tra poche mura, di relazione con qualcosa che ci mancava, di compensazione di una socialità inibita altrove. Ma dall’altro come una modalità di profondità e anche di isolamento: ha aiutato a stare un po’ soli quelli che vivevano il lockdown in case affollate ma ha aiutato a sentirsi meno soli quelli che, nelle percentuali impressionanti delle nostre città, vivono soli.

Hai ragione, le case hanno contato, e molto. Su questo giornale Davide Maria De Luca e Filippo Teoldi hanno spiegato perché il Covid ha distinto tra ricchi e poveri. Nei quartieri più periferici di Roma si sono avuti picchi di mille contagi ogni 10mila residenti. Al Celio o all’Esquilino quel picco non ha superato i trecento casi. La scienza ha raccontato la pandemia basandosi su analisi di varianti ed efficacia dei vaccini. La politica ha gestito l’emergenza come ha potuto e con parecchi limiti. Ma su questo piano la cultura il suo “mestiere” lo ha fatto?

Guarda, sarei in imbarazzo a definire cosa è la cultura. Però so che tra le altre funzioni ha quella di aiutarci a capire cosa siamo, a vivere con maggiore consapevolezza quello che ci accade di vivere, magari a darci qualche strumento di risposta. Di forza, insomma, non contro gli altri ma di fronte alla vita. Questo è mancato perché la cultura sembra regredita da un lato verso una dimensione puramente decorativa, un elegante arredamento del mondo in cui viviamo, dall’altro in una oltranza critica, ma sarebbe meglio dire di risentita scontentezza, altrettanto futile, in fondo. Quando è cominciato il lockdown in un libro di Tony Judt ho incrociato quella bellissima citazione di Keynes che di fronte a chi gli contestava di aver cambiato non so quale parere rispondeva «Io quando i fatti cambiano cambio idea. Lei che fa?». A me ha colpito che i maggiori intellettuali che hanno parlato in questi mesi non hanno fatto altro che ribadire quello che già dicevano prima, come se un evento così apocalittico non potesse che confermare schemi ideologici preesistenti. Ma anche qui sarei indulgente: il momento decisivo per la cultura e le professioni intellettuali comincia ora. Ora è il momento delle idee e pratiche nuove, all’altezza dei tempi. Se non arrivassero, se prevalesse la tentazione di rifugiarsi nelle sicurezze dei propri territori o nella consolazione oppositiva, il tradimento dei chierici sarebbe completo.

Tu dici «idee e pratiche nuove all’altezza dei tempi» e sottoscrivo. Il moderato Biden sta stupendo per una radicalità che nessuno si aspettava. Ma Biden sta in America, qui da noi c’è chi dice che questo mestiere oramai lo fa la destra. Ricordo una formula di Walter Siti, spero di riportarla nel senso esatto: diceva che era semplice essere un borgataro comunista o fascista, molto più complicato trovare un borgataro riformista. Avrebbe ancora ragione?

Ah certo, ma mica sono i borgatari che devono diventare riformisti, sono i riformisti che devono fare le riforme ed eventualmente convincere i borgatari! Però è vero che qualcosa di profondo si è spezzato: ogni volta che leggo qualche editorialista lamentare che il Pd nelle borgate non esiste più, mi viene in mente che nelle borgate nessuno più legge quei giornali. Nella borgata dove sono cresciuto, al tempo in cui vi sono cresciuto, non era così; si leggeva, si discuteva, si lottava. Però neanche allora eravamo riformisti, in effetti… Ma al di là delle battute, in borgata o altrove, per mobilitarti devi avere un sogno o almeno una speranza non solo strettamente personale. Altrimenti prevalgono i sentimenti che alimentano la destra: la rassegnazione conservatrice oppure il rancore disperato e rabbioso, l’egoismo individuale o di gruppo, di territorio, di pelle, di tifo.

Tornando alla cultura, una volta hai detto che chi «legge» male poi «elegge» male, e subito dopo giudicavi la rivoluzione di Internet molto più profonda di quella di Gutenberg. L’argomento era che la stampa scopre la sua potenza solo quando si inventa il genere del romanzo, mentre il genere che attraverso la rete scompaginerà il mondo non lo abbiamo ancora inventato. La vedi sempre così?

Direi di sì. Pensa a cosa sarebbe stata la pandemia, a come avremmo vissuto i lockdown senza la rete: sembra quasi sia stata inventata apposta! Qui la pandemia ha mostrato un tratto decisivo di tutte le catastrofi: accelerare processi in corso, aiutarci a leggerli meglio. Per esempio le dinamiche e le potenzialità del digitale portano all’estremo uno scontro fondamentale tra istanze di autonomia e pulsioni di centralizzazione e controllo. È l’eterna questione del potere, certo, ogni volta spinta più avanti. Il potere, e i profitti, che la pandemia ha consegnato a quattro o cinque corporation non ha precedenti ma lo stesso vale per le dimensioni dell’orizzontalità che ha assunto la comunicazione. Per un progressista – non è la definizione di una ideologia, ma l’inclinazione di chi pensa che bisogna trovare ragioni di speranza e di azione nella direzione che la storia ogni volta assume – non c’è altra possibilità che stare dentro quel flusso: criticarlo ma provare a orientarlo. Introdurre elementi di qualità, di serietà, di solidarietà con gli strumenti che abbiamo. E provare a riequilibrare quella tremenda sproporzione economica e simbolica. Il cuore della politica oggi mi appare questo.

Magari c’entra poco, ma mi fai tornare a mente un episodio raccontato da Tullio De Mauro. A metà anni Settanta in un comune fiorentino un sindaco viene informato che diverse famiglie non sanno leggere le regole della mensa scolastica. Al che il Comune prevede un corso di alfabetizzazione per adulti e spedisce alle famiglie una lettera, ma nessuno risponde per la ragione che quelli non sapevano leggere. A quel punto convocano una sfilata con banditori, saltimbanchi, e lo slogan che usano è «Parole. Vogliamo parole non fatti». Ecco, a noi è toccato in sorte l’opposto e se usassimo quello slogan finiremmo sommersi dai fischi. Però trovare un equilibrio tra pensiero e azione non ti pare tra le cose più urgenti da fare?

È fondamentale, certo. Anche perché la rete delle parole oggi è infinita, le forme della comunicazione oggi hanno dato questo potere, il potere di parola, un tempo così inaccessibile e limitato, praticamente a tutti: tutti possono avere la possibilità di parlare a tutti. Che poi è un’illusione, se guardi alla sproporzione dei follower, ma sulla coscienza agisce più la percezione della potenzialità che il principio di realtà... Anche qui mi interessa una battaglia all’interno delle parole, della loro qualità. Mi viene in mente la parola d’ordine che proponeva Gianni Rodari: «Tutti gli usi della parola per tutti». Abbiamo dispositivi e pratiche sociali che hanno dato la parola a tutti ma ne abbiamo impoverito “gli usi”. Anche qui c’è una cosa di sinistra da fare, anzi due: allargare l’area della possibilità, non aver paura della democrazia. Ma insieme non arretrare sulla qualità, non essere codisti, come si diceva un tempo. L’umanità merita di più, bisogna dirglielo sempre.

Mi verrebbe da risponderti cha la vera codista oggi è la politica, ma sul perché a un certo punto si consuma il divorzio con la cultura avrei una risposta che va oltre il venir meno di riviste, giornali o associazioni. Credo che un peso maggiore lo abbia avuto la scelta di fare della governabilità l’unico fine. Lo stare al governo “a prescindere” è divenuto il tratto di una sinistra incapace di concepirsi altrove mentre quel legame con la cultura nasceva da una scelta di campo: al governo perché e per fare cosa? Asor Rosa fa risalire la separazione tra politica e cultura a pensatori «solitari»: Pasolini, Calvino, Fortini. E aggiunge che sono state autoreferenzialità e autoriproduzione a provocare il taglio tra «partiti e intellighenzia» coi primi che non hanno «saputo più che farsene» della seconda. Per oltre un decennio tu hai goduto di un osservatorio come Radio 3, ti sentiresti di condividere lo stesso giudizio?

Certo, è così. Ma come diceva Brecht? «Parlino gli altri della propria vergogna, io parlo della mia». Qui c’è una responsabilità forte della cultura, delle figure intellettuali, delle professioni e le accademie in cui sono rifluite, degli organi di formazione e comunicazione vistosamente non all’altezza della sfida che si è aperta. Ero favorevole allo scioglimento del Pci anche per una questione “corporativa”, diciamo così: pensavo che gli intellettuali, pure quelli che hai citato, privati di quella specie di rassicurante pupazzo di pezza che era diventata l’ideologia comunista, sarebbero stati messi di fronte alle proprie responsabilità, etiche e politiche. Era un Dio che moriva – era morto da tempo, in verità – e tutto diventava possibile.  Bisognava cominciare un cammino difficile, senza rendite, bussole, conforti e sicurezze, rischiando in prima persona. A me sembrava anche una sfida entusiasmante. Non è andata così e ora capisco perfino la nostalgia di chi rimpiange il fortino diroccato dell’ideologia. Ma non è la mia nostalgia.

Aggiungi pure che di una ideologia senza idee non rimane molto e i social non bastano a fare da supplenza anche se hanno già mutato la politica, fosse solo per la possibilità di esercitare un controllo su qualunque affermazione. E però anche su questo è lecito dubitare. Prima della rete e di una tv onnivora c’era una classe dirigente poco abituata alle telecamere, ma mediamente più preparata. Allora come ti spieghi che più immediato diventa il controllo su ciò che si afferma, più la qualità del ceto politico declina? Non è anche questo un paradosso della contemporaneità?

Non so, Rodotà mi raccontava di comizianti, credo comunisti, che promettevano chicchi di grano grandi come pugni. E forse ricordi quelle cartoline che gli emigranti spedivano dal Nuovo Mondo per convincere i parenti, con cipolle grandi come loro stessi. La realtà è che tutto è sempre contraddittorio. Capisco cosa intendi, ma come possiamo parlare di un discorso pubblico che si è ristretto quando possono prendervi parte tutti (per la prima volta nella storia umana, Gianni!)? Finche c’è contraddizione c’è speranza. Ma hai ragione, è questione di anticorpi. In questi mesi abbiamo imparato che quando accade qualcosa di grave, gli anticorpi già belli e pronti non ci sono. Ma abbiamo visto lo spettacolo – progressista! – di una comunità di competenze, un intreccio di passioni e di interessi, che li ha trovati, prodotti, diffusi. Non trovi sia una bella storia e una grande metafora?

Sì, mi piacerebbe fosse così, poi però penso che servirebbero comunque le agenzie in grado quegli anticorpi di coltivarli, la scuola, il civismo, la cultura diffusa. C’è chi pensa che avresti il profilo adatto per guidare la Rai. Ecco, in questo tempo che pare recuperare il valore dei beni comuni tu come rifonderesti la missione del servizio pubblico?

Rispondo solo questo: c’è una grande necessità di “servizi pubblici”. La pandemia ha mostrato che c’è bisogno di una rete sanitaria forte, efficiente, accessibile, pubblica appunto. Lo stesso vale per l’istruzione o i trasporti. E anche nell’informazione, che urgenza abbiamo avuto di dati certi, pensieri seri, parole misurate? Negli ultimi mesi in Rai mi è spiaciuto che non ci sia stata nessuna condivisione di questa necessità, e nemmeno la capacità di rivendicare quello che pure di buono è stato fatto in questa direzione. È stata persa l’occasione di ridefinire cosa è il Servizio Pubblico, di rinominare la sua necessità. Che è anche una precondizione per lavorare seriamente alla trasformazione della sua identità, ancora traumatizzata dal passaggio dal monopolio all’oligopolio. Mentre si tratta di sfidare il mare magno e tempestoso della comunicazione contemporanea con un vascello, non più una corazzata. Ma quello che ho imparato a Radio 3 è che con i vascelli si naviga bene, si combatte meglio e ci si diverte pure.

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