L’osservatorio del presunto slittamento esistenziale tra impero dell’aperitivo e terrore del ritiro patente seguito all’entrata in vigore del nuovo Codice della strada è stato a Natale: nel profondissimo Veneto, a pochi minuti dalle ore 18:00, in un giorno di freddo e di festa al bar si vedevano solo succhi e crodini. Ma se il rischio di imbattersi in una volante fosse più che altro una scusa?
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola
C’è un momento in cui una norma passa dalla teoria alla pratica, dall’astrazione alla vita reale. L’osservatorio del presunto slittamento esistenziale tra impero dell’aperitivo e terrore del ritiro patente seguito all’entrata in vigore del nuovo (ma non nuovissimo) Codice della strada, per me, si è svolto tra la Prenestina e un bar in provincia di Treviso, nel fermento dell’ultimo Natale.
A Roma l’aria che precede le feste induceva a intasare di appuntamenti i calendari. La gara alle uscite pre-partenza (“così almeno ci salutiamo”) scatta ogni volta che si avvicina il 25 dicembre. Incrociamo e accavalliamo incontri, come se dovessimo tutti partire per l’anno di leva anziché assentarci qualche giorno e infine ritrovarci nei medesimi luoghi con un chilo in più. Anche nei prefestivi, che si tratti di amicizia o di quell’ibrido tra amicizia e lavoro chiamato networking, sarà necessario «parlarne davanti a un bicchiere». Lavorare mentre facciamo lavorare. Produrre mentre consumiamo. Contribuire all’indotto attraverso l’interazione.
L’ultima sera prima di prendere un treno diretto in Veneto, dopo l’ultimo giro di saluti, tornavo a casa in taxi attraversando una di quelle arterie che, al contrario del centro storico, restano ignare della magia del Natale. Diversamente dal consueto, un brillio in più accendeva la strada, non era come quello delle lucine sghembe sui terrazzi dei condomini. Lungo la Prenestina “buone feste” lo auguravano una quindicina di volanti parcheggiate a ogni lato. Lampeggiavano liete e ognuna controllava un’auto.
Pochi giorni dopo mi trovo nella mia cittadina pedemontana, a chiacchierare con un’amica in uno dei pochi bar aperti tra i molti bar esistenti. Non paghe degli zuccheri già assunti ordiniamo due cioccolate calde con panna. Il tempo ci traghetta fino alle 17:55, lo so perché giro lo smartphone e attivo lo schermo per controllare eventuali notifiche. Tutto tace. Tutti, probabilmente, versano nel semi-coma glicemico.
Ad attirare la mia attenzione è tuttavia l’orario. Dico alla mia interlocutrice aspetta, fammi controllare una cosa. Setaccio la nostra sala e quella attigua, il locale è così pieno che un paio di avventori attendono in piedi. Torno a guardare l’amica e dico, solenne: niente alcolici. Tè e tisane fumanti, succhi, crodini. Nel profondissimo Veneto, a pochi minuti dalle ore 18:00, in un giorno di freddo e di festa il Natale si fa sobrio.
Scusa perfetta
Pensando al luccichio festoso delle volanti, mi sono chiesta – senza trovare risposta – se i rinunciatari del brindisi in quel bar di provincia non avessero fatto altro che trovare la scusa perfetta (finalmente diversa da «bevo acqua perché sono sotto antibiotico») per fermarsi al grido di: «Bevo un gingerino e torno a casa».
Lo straniamento di trovarsi tra clienti astemi nel bar di una cittadina veneta non è cosa che si nutre di solo stereotipo. Tabelle Istat alla mano, nel 2023 la macroregione Nordest risultava prima per consumo di bevande alcoliche (con il 59,8 per cento della popolazione sopra gli 11 anni), ma il vino svetta come alcolico più consumato in tutto il paese e il settore vitivinicolo è oggi in Italia un mercato da oltre 40 miliardi di euro.
Fatti i conti di casa minimi e definito il ruolo centrale di calici e bicchieri nella vita di buona parte del paese, torniamo al tormentone del Natale passato. Perché, in verità, a qualche mese di distanza non sappiamo se il mercato degli alcolici sia stato danneggiato dal rinnovato codice. Sappiamo, a smentire parzialmente i dati precedenti, che il 2024 ha visto un calo dei consumi rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Ipotizziamo, inoltre, che i soggetti più impattati dal Codice siano tutti coloro che hanno ben poco a che fare con i rischi oggettivi della guida in stato di ebbrezza; quei pazienti che non hanno ancora ricevuto i dovuti chiarimenti rispetto alla possibilità di assumere farmaci legittimamente prescritti senza incorrere nel rischio di sanzioni.
Impatto e consumo
I dati sul valore del mercato del vino, dunque, ci dicono meraviglie, quelli sul consumo dello scorso anno evidenziano un calo nei consumi, mentre quelli sul possibile impatto del nuovo Codice abitano più il territorio della leggenda che quello della statistica.
Per capire che cosa è rimasto del panico natalizio e che cosa ne può essere di uno dei nostri settori più redditizi, ho parlato con una persona che se ne occupa. Paolo vive e ha sede di lavoro a nordest, ma ha clienti in tutta Italia. La sua è un’attività piccola e curata. Si occupa di vino in ambito commerciale, nello specifico di vini naturali. Il 90 per cento dei suoi clienti sono ristoratori e solo il 10 per cento privati. In un’epoca di sovrabbondanza dell’enfasi nella narrazione di ogni prodotto, Paolo è l’interlocutore ideale perché, per sua stessa ammissione ha «una visione abbastanza pessimista di ogni cosa».
Gli chiedo se dal suo punto di vista ci sono stati dei cali e se la preoccupazione per sanzioni più severe può aver inciso. Risponde che il suo punto di vista è «marxiano, per cui se il vino è un bene servono soldi per acquistarlo. Più soldi ci sono, più beni si acquistano. Le persone hanno meno soldi». Com’è noto, in Italia gli stipendi sono bassi e non seguono l’inflazione, dunque «chi compra considera la scala di quali sono i beni essenziali e quelli superflui».
La questione è anche generazionale. La popolazione invecchia, le persone più anziane e con maggiore margine di acquisto non potranno consumare vino per sempre, mentre i più giovani hanno altri interessi: «È piuttosto normale che i ragazzi decidano di bere bubble tea e guardare al “vecchio che beve vino” considerandola una cosa da sfigati».
Il vino, tra l’altro, negli anni ha drasticamente cambiato il suo status. «In paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna, la Slovenia, il vino sarebbe ancora un alimento, ma a un certo punto si è deciso di ribrandizzarlo come bene di lusso». Considerando la forbice generazionale di cui sopra, e che «in Italia la classe media non esiste più, non so se immaginare come beni di lusso sia uno Champagne che un Brunello sia stata un’idea che ha fatto bene al mercato».
Agevolare
«La questione della patente, peraltro emersa in un periodo delicato come quello festivo, avrà anche avuto un suo peso, ma è più che altro andata nel calderone di un mercato che stava già rallentando».
Chiedo cosa ne pensi, invece, dei dealcolati di cui si inizia, timidamente, a intravedere la pubblicità? «Ho preferito inserire in listino dei succhi, dei sidri a cinque gradi e dei fermentati. Non si tratta solo di una questione di gusto, ma anche di scelta etica. I dealcolati consumano il doppio dell’energia elettrica perché hanno bisogno di un doppio processo. Già la monocultura vinicola fa spavento, forse è il caso di curare la biodiversità invece di continuare a cercare velocità e soluzioni facili».
E allora la soluzione qual è? «Il futuro è imperscrutabile, ma per tornare alla visione marxiana, si tratta di andare a ripensare la scala di priorità. Avere la curiosità di acquisire una cultura che permetta di spendere, senza per forza eccedere, su due bicchieri ragionati e un lavoro fatto bene».
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