Dry January è il nome della più famosa campagna al mondo legata a un minor consumo di alcolici. Registrata nel 2014 dall’organizzazione benefica Alcohol Change Uk, consiste nell’astensione per tutto il mese di gennaio dal consumo di vino, birra, cocktail, ecc.

Ian Andersen, cofondatore dell’app salutistica Sunnyside, ha dichiarato al magazine Newsweek che più di 75 milioni di persone avrebbero aderito a Dry January nel corso di gennaio 2025, solo negli Stati Uniti.

Non esistono numeri ufficiali, i dati di Google Trends dicono però che la sua già rilevante popolarità è quasi raddoppiata negli ultimi tre anni, a dimostrazione di un trend globale molto trasversale, che ha portato da una parte i consumatori di tutti i maggiori paesi a porsi in maniera più critica nei confronti del bere e dall’altra, come conseguenza, tutta la filiera produttiva a interrogarsi sul futuro delle bevande alcoliche, vino in primis.

Non è un caso che in occasione dell’ultima edizione di Vinitaly, la principale fiera di settore italiana, ben due convegni fossero dedicati al tema dei vini dealcolati, vini cioè che una volta prodotti vengono privati, del tutto o in parte, della loro componente alcolica.

Un segmento in Italia ancora piccolissimo, che però si stima crescerà quest’anno del 60 per cento rispetto al 2024.

È il risultato del sondaggio del nuovo Osservatorio di Uiv-Vinitaly effettuato sui principali produttori italiani di vini a basso o nullo contenuto alcolico.

«La nicchia produttiva è nella sua fase embrionale, ma già si registra l’effetto positivo generato dal decreto di dicembre che disciplina le disposizioni nazionali sulla produzione della categoria», ha commentato il segretario generale di Unione italiana vini, Paolo Castelletti, aggiungendo che «oltre all’aumento dell’offerta la gran parte delle imprese esprime l’intenzione di trasferire la produzione in Italia».

Diverse infatti le aziende che in questi anni, pur di presidiare questo piccolo segmento di mercato, avevano scelto di produrre all’estero. Un decreto che ha colmato un vuoto normativo: fino a pochi mesi fa non si poteva chiamare “vino” una bevanda con un tenore alcolico inferiore agli 8,5 gradi. Ora, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale delle disposizioni attuative del decreto sui dealcolati, cade questa regola: via libera quindi alla produzione di vini “alcohol-free”, a patto che non siano a denominazione di origine.

Su questo il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida è sempre stato molto chiaro, così infatti il testo: «Il processo di dealcolazione, totale e/o parziale, non è eseguito per le categorie di prodotti vitivinicoli a denominazione di origine protetta e indicazione geografica protetta».

Siamo quindi ancora molto lontani dal vedere sugli scaffali un Prosecco senz’alcol.

Le ragioni del trend

Salute, benessere, guida, religione, gravidanza, lifestyle: tante le ragioni che possono portare una persona a scegliere di non bere alcolici.

Sarà per la storica tradizione di abbinare qualcosa ai piatti, ma soprattutto al ristorante c’è una certa apertura nel provare qualcosa di diverso dalla sola acqua a tavola: «Io sono una paladina del vino», racconta Clizia Zuin, sommelier del ristorante fiorentino Atto dello chef Vito Mollica, una stella Michelin.

«Il mio lavoro – continua — è tuttavia anche quello di aumentare lo scontrino medio proponendo prodotti di qualità che siano funzionali a quella convivialità che cerchiamo di incentivare, qui al ristorante. Quando vedo che un tavolo è indirizzato alla sola acqua sono la prima a proporre con convinzione un dealcolato, sia sugli spumanti che sui bianchi sono molto soddisfatta della nostra proposta. Il primo, il prodotto che in assoluto lavoriamo di più, viene dalla Francia, si chiama French Bloom ed è realizzato a partire da uve di Chardonnay. Non è un dealcolato puro, nel senso che viene aggiunto un po’ di mosto d’uva per accentuarne la morbidezza e un po’ di acido citrico, ma fino a ora tra quelli che ho provato è quello che preferisco. Tra i bianchi lavoriamo molto bene il Riesling “Zero” di Steinbock, il progetto tedesco dedicato ai dealcolati del produttore altoatesino Hofstätter. Sui rossi invece sono più scettica, fino a ora quelli che ho provato non sono all’altezza».

Le tecniche

La produzione di un vino dealcolato avviene attraverso diversi possibili processi: la distillazione sottovuoto consiste nel sottoporre il vino a una depressione in apposite colonne, in modo da fare evaporare l’alcool a basse temperature, a meno di 30 gradi centigradi; la “spinning cone column” permette l’evaporazione dell’alcol dal vino tramite la rotazione di coni con un processo che avviene sottovuoto: l’osmosi inversa, la tecnica più diffusa, è un processo di filtrazione a membrana che permette di separare un determinato composto dal vino, in questo caso l’alcol etilico. Tecniche tutte molto costose e quindi al di fuori delle possibilità della grande maggioranza delle aziende vitivinicole, soprattutto interventi che non riescono mantenere del tutto inalterate le caratteristiche organolettiche dei vini.

I rossi, vini la cui componente alcolica gioca un ruolo fondamentale nel definirne l’equilibrio complessivo, sono i più difficili da dealcolare con successo.

Sempre Clizia Zuin racconta quelle che ha intuito essere le motivazioni che portano le persone a bere un vino dealcolato, al ristorante: «Ne scrissi anche su Intravino un paio di anni fa, le situazioni sono le più diverse. C’è chi vuole festeggiare, quindi brindare con amici e famiglia e sicuramente è meglio farlo usando un calice invece che un bicchiere d’acqua. Tra l’altro trovo molto bello che ci siano genitori che fanno provare questi prodotti ai minorenni, credo sia un ottimo passo per creare in loro un senso di consapevolezza intorno alle bevande alcoliche. Poi c’è chi li prova per motivi religiosi, che quindi accetta un dealcolato per adeguarsi agli usi tipici dell’Italia senza però tradire il suo credo. Ci sono le persone malate, e una bottiglia sul tavolo può dare una parvenza di normalità. Tra l’altro ordinare uno spumante dealcolato implica, come tutti gli altri, avere una glacette sul tavolo: la bottiglia che sporge è probabilmente più elegante di qualunque analcolico, magari in lattina. Ci sono persone che magari la sera prima hanno bevuto troppo ma che non vogliono rinunciare al rito della bottiglia. O chi accompagna ex alcolisti, che non vuole quindi indurli in tentazione. E poi beh, ovviamente ci sono le persone semplicemente curiose. Un numero sempre maggiore».

Un mondo che cambia

Una curiosità che è trasversale, che riguarda i vini dealcolati come gli analcolici in generale, tipologia di prodotti che in questi anni ha vissuto un vero e proprio rinascimento. Non a caso quello che sta cambiando nei confronti del non alcolico è anche l’approccio dei professionisti del settore.

«Per anni si è pensato che analcolico fosse sinonimo di succo di frutta», racconta Lukas Gerges, head sommelier dell’Atelier Moessmer, il ristorante tre stelle Michelin di Norbert Niederkofler, in Alto Adige.

«Non ho niente contro i succhi, ma all’interno di una cena quanti ne possono essere serviti? Sono bevande troppo zuccherate per poter sostenere più di un abbinamento. Non è un caso che quando parliamo di questo tema si possa dire ci sia stato un prima e un dopo: l’avvento sul mercato dei prodotti della Copenhagen Sparkling Tea Company. Bevande fantastiche, soprattutto bevande secche. Da quel momento, e sempre di più, il mondo del fine dining si è accorto che era possibile servire prodotti analcolici che avessero un senso».

Tè, quelli danesi appena citati, che si presentano in eleganti bottiglie da spumante, la cui gamma prevede sia bevande a basso contenuto alcolico, entro i cinque gradi, che nullo.

Un mercato che sta crescendo vertiginosamente: «Qui all’Atelier Moessmer abbiamo iniziato a concentrarci sugli abbinamenti analcolici soprattutto quando abbiamo deciso di aprire anche a pranzo, due giorni alla settimana. Abbiamo notato che la richiesta di vino era molto bassa, quindi, pragmaticamente, ci siamo concentrati sempre di più su un’offerta che potesse soddisfare quei clienti che non vogliono bere alcol».

I motivi possono essere i più diversi, come già scritto, anche se secondo Lukas nel caso del ristorante in cui lavora sono soprattutto legati al timore di incorrere in controlli stradali e a una voglia di maggiore salubrità.

«Il nostro abbinamento classico al menù degustazione costa 220 euro, quello che comprende solo analcolici viene invece 160 euro. Un prezzo giustificato anche dal fatto che abbiamo una persona dello staff che si occupa esclusivamente di sviluppare e preparare queste bevande».

Drink che prevedono l’uso, in linea con la filosofia dello chef e quindi del ristorante, di soli prodotti locali e di stagione, «non usiamo mai frutta esotica o prodotti che non crescono in queste zone come limoni o arance».

Qualche esempio: «La nostra “Insalata primaverile”», continua Lukas, «viene accompagnata da quello che abbiamo chiamato Total Spring, un succo che realizziamo con le pere della Val di Non, con un estratto delle parti meno nobili degli asparagi bianchi di Terlano che usiamo in cucina e con un nostro sciroppo di sambuco ottenuto dai fiori essiccati della stagione passata. E ancora: la “Lingua” viene servita con un kombucha che realizziamo insieme a mele granny smith, verbena, un’erba aromatica di montagna molto tipica di queste zone, e ancora fiori di sambuco. Infine con il “Grigio Alpina” serviamo una bevanda a base di tè nero e frutti rossi realizzata con lo scopo di ricreare le caratteristiche di un vino rosso, essendo il piatto caratterizzato da una proteina strutturata e complessa».

Un mondo affascinante e che funziona: «Qui al ristorante il 70/80 per cento dei clienti si affida a noi per gli abbinamenti, ci sono giornate che anche il 50 per cento di questi scelgono il percorso analcolico, magari chiedendo di inserire un bicchiere di vino, uno solo».


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