“Come fai ad ascoltare ’sta merda?” L’oggetto è la musica rap e trap italiana che sta fissa nella top ten di Spotify e fa visualizzazioni a sei zeri su YouTube. Chi me lo chiedeva non erano solo vecchi fan di Guccini o del progressive, con l’eskimo e le Clarks – sì, ci sono ancora, almeno tra i miei amici –, ma anche colleghi, giornalisti, lavoratori della cultura, autori televisivi che ormai da anni, per scelta o sopravvivenza, fanno surf sull’onda del pop, vanno ai concerti dei Radiohead e dei Blur, hanno digerito l’indie di Manuel Agnelli e Baustelle e in macchina ascoltano Calcutta.

Ma non si sono fatti trovare pronti allo tsunami della trap, forse perché ci ha invecchiati di colpo: usciti prima dalla strada che dal laboratorio delle case discografiche, i trapper hanno fatto tabula rasa del passato, rendendosi così inaccessibili.

È il futuro, bro! E tu non puoi farci niente! Niente. O forse puoi provare a entrare nel loro flow – il flusso – e ascoltare quello che stanno dicendo. Spesso le notizie che portano sono cattive notizie, soprattutto nelle canzoni più esplicite. Nelle rime di Paky, Baby Gang, Simba La Rue e tanti altri non c’è morale, i testi non sono consolatori ma semplicemente fotografano una realtà che molti preferirebbero non vedere: delinquenza, ostentazione del lusso, turpiloquio, miraggi di bella vita e successo facile.

Eppure basterebbe leggere quello che scrivono come fosse un hard-boiled alla James Ellroy senza trama, singole azioni sceneggiate spesso con grande stile. Sì, perché molti di questi rapper e trapper sono degli scrittori a loro insaputa, o con la consapevolezza che a fare rap si guadagna di più che pubblicando un libro. Ragazzini neanche maggiorenni, molte seconde generazioni, che spesso arrivano da contesti familiari, sociali ed economici difficili, decidono di mettere in rima quello che vedono o (ma non è questo il punto) quello che vogliono che noi vediamo di loro, riuscendo comunque attraverso la musica a creare un ponte di comunicazione tra il loro mondo e l’esterno. Scrivono sulle note del cellulare, sono un po’ dei lanzichenecchi – come scrisse Alain Elkann in un editoriale diventato subito meme –, ma nelle loro rime c’è molta più vita che nel novanta per cento dei pezzi pop che passano per radio. E c’è altrettanta vita che nella letteratura.

Siamo stati abituati ad ascoltare il suono delle periferie – quelle fisiche e quelle culturali – solo quando esprimono un messaggio rassicurante, di riscatto e formazione, la favola che dal disagio e dalla povertà si esce solo con l’abnegazione e i buoni sentimenti. Non è così, ed è proprio questa la rivoluzione del rap e della trap: la capacità di dirci come stanno realmente le cose.

Basta farsi un giro a Milano le sere del fine settimana tra corso Como e il Bosco Verticale, con i maranza che dalle periferie salgono sulla metro verde e lilla e calano in centro, per capire cosa sta succedendo, e perché criminalizzare un genere musicale solo per un paio di trapper che hanno avuto guai con la giustizia non sia certo la soluzione. La forbice tra ricchi e poveri, nelle grandi città come Milano e Roma, è sempre più ampia, i ragazzini passano le giornate a scrollare i social vedendo gente pseudo-famosa che fa la vida loca su uno yacht a Ibiza con orologi e vestiti costosi, e alla fine il risultato è questo: se non me lo posso permettere economicamente, me lo prendo lo stesso. Lo rubo, lo rapino.

Quest’onda del rap e della trap è talmente alta che già in quarta elementare i ragazzini si chiamano tra loro “bro” e ascoltano Shiva e Rondo. Non sognano più di fare i calciatori, ma di diventare dei trapper. E anche i sedicenni dei quartieri bene del centro si vestono come i maranza di periferia, in un cortocircuitoimitativo incredibile. La trap è ovunque, è una sorta di iperoggetto. Non tutti i trapper che parlano di rapine, risse e furti poi li fanno davvero. Non tutti quelli che utilizzano un linguaggio violento lo sono.

Del resto, il rap è nato cinquant’anni fa a New York proprio per tenere i ragazzi lontano dalla strada. Il messaggio era: mettete la violenza nelle vostre parole, nelle canzoni, così evitate di prendervi a revolverate e coltellate per strada. La violenza dei testi fa parte del rap fin dagli esordi. I valori dei trapper sono gli stessi dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo, individualismo esasperato, culto del denaro e iperconsumismo, e che ora tornano indietro ai padri e alle madri col filtro dell’autotune. I trapper semplicemente riflettono il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse.

Gang gang gang

Ricordate la scena del film cult dell’era paninara Sposerò Simon Le Bon? Al fratello della protagonista rubavano le scarpe Timberland, due contro uno. È su YouTube, sepolta nell’armadio polveroso della fibra ottica con tanto di colonna sonora anni ’80. Giuridicamente è una rapina, come quelle che avrebbero fatto nell’estate 2021 i rapper Neima Ezza e Baby Gang alle Colonne di San Lorenzo a Milano. Si proclamano innocenti, vengono assolti per un possibile scambio di persona, e caso vuole che un paio di mesi prima esca un singolo di Baby Gang con la partecipazione di Neima Ezza dall’emblematico titolo Rapina dove dicono di fare reati non per moda come i “bimbiminkia” ma per bisogno, perché manca “la moolah”, il denaro.

Realtà e finzione iniziano a mischiarsi nel primo episodio di una lunga serie che ha dato il via alla narrazione, quasi sempre reazionaria, del fenomeno baby gang. Al posto delle Timberland, i rapper (o le persone che sono state scambiate per loro) si sono presi collanine e AirPods, pare avessero pure una pistola. I cronisti del Corriere della Sera hanno citato ancora una volta L’odio di Kassovitz, intervistando psico-guru televisivi alla Crepet che parlavano di un disagio esploso in pandemia con la sospensione delle relazioni, paura e aggressività di una generazione fragile.

La novità è un’altra: questi ragazzi non rapinano o rubano per comprarsi l’attico a City Life, neanche per avere il proibito (per il prezzo) oggetto del desiderio: il piumino Gucci x The North Face. Vanno fieri delle loro tute sintetiche, dei borselli tarocchi, delle ski mask per nascondere il volto della Nike che fanno tanto gangsta a meno di trenta euro, i balaclava – come chiamano gli inglesi il passamontagna – a cui dedicano pure titoli di canzoni, come Cagoul e Asics di Spookypbl. Rapinano e rubano per bisogno, dicono, perché di quello rappano nei pezzi, e quello ascoltano i ragazzi. Ma la necessità vera è quella di crearsi uno storytelling.

Avete presente il tormentone che ripete: il crimine “è colpa della società”? Quella cosa semplice da marxismo standard che fa impazzire tutti i libertari de noantri, la destra, i panel dei talk di Rete 4? Il senso è che di fondo l’umanità è buona, la società spietata. Il buonismo. Bene: qui Baby Gang, nome d’arte di Zaccaria Mouhib, ci dice la sua. È una cazzata. L’umanità è bestia. Spietata. Di questo non ce ne stupiamo sennò lui farebbe il volontario alla Caritas, non il rapper. E i rapper vanno per le spicce.

In uno dei suoi pezzi, Paranoia (2022), dice di avere una mentalità criminale, di girare con “i negri” e le pistole, e quel che succede lo si può poi vedere al tg, a Studio Aperto. Essenzialismo puro, San Siro, bombe puzzolenti, virus, viuleeenza. La società chi l’ha vista? La società non esiste. Si salvi chi può.

Quindi il rap sarà tanto più vero quanto più la fonte della sua cattiveria gangsta sarà organica, sotto pelle, microchip se volete. È quello che ci insegnava Arancia meccanica: ad Alex rendono intollerabile e nauseabonda la violenza, inibiscono la capacità di scegliere il male, così lo spingono al suicidio. Di fatto è la stessa ideologia che anima la destra più profonda di questo paese: in galera, buttare via la chiave. Tutta un’ossessione gangsta di legittima difesa, villette brianzole e zingarelle sul metrò. E se avessero ragione loro? Del resto uno che decide di chiamarsi Baby Gang al plurale cos’è? Un megalomane, meglio dargli retta. Se la colpa è della società allora si rapina per vivere; se la colpa è mia allora vivrò per rapinare. Ruba. Rapina.

Il gip di Milano Guido Salvini nel 2023 ha negato l’affido a una comunità per Baby Gang, poi trasferito al Beccaria, per- ché “l’uso di cannabinoidi non è qualificabile come dipendenza ma come espressione di uno stile di vita”, fin qui ok, e perché il trapper è “un modello negativo per il suo pubblico, avendo sfruttato i propri comportamenti illegali per costruire il suo successo”. Che la musica sia spesso un modello negativo è dai tempi del rock’n’roll, Elvis Presley e Jerry Lee Lewis che ce lo sentiamo ripetere. E dire che il gip Salvini si è occupato di Piazza Fontana, eversione di destra, è un fan della rivista Linus e dei fumetti di Wolinski, quello di Charlie Hebdo. Non un compagno ma quasi, di modelli negativi sicuramente ne ha visti molti, altro che Baby Gang.

C’è un pezzetto di una puntata di Fuori dal coro, talk hard-core di Mediaset, in cui il presentatore Mario Giordano dissa in un monologo la violenza dei testi trap, indignandosi: “Bang bang bang / immagini di pistole e fucili / spaccio ripreso in diretta / scimitarre pasticche / milioni di visualizzazioni su internet / bang bang bang / altro che integrazione / dietro l’accoglienza c’è questo”. Testuale.

In televisione da un paio d’anni a questa parte va di moda invitare i trapper, spinti un po’ dal decreto Caivano e un po’ dal terrore immigrazionista diffuso a piene mani tramite le baby gang. A Dritto e Rovescio di Paolo Del Debbio abbiamo visto il vecchio Josh di Zona 4, orgoglio dell’hip hop di Corvetto, e i giovani Khalid e Cialdina. Speriamo fossero pagati. Simba La Rue in persona, inseguito dalla solita molesta inviata, ha regalato alla trasmissione un TikTok di puro odio, replicato in onda due volte, giustamente. Gli applausi più scroscianti li hanno avuti il direttore di Libero Pietro Senaldi, che in tv ci vive, manco passa più a casa a cambiarsi, e l’europarlamentare leghista Silvia Sardone appena passata dal parrucchiere.

Il dibattito in genere serve più a loro, the normals, che così possono vantarsi della loro passata gioventù. Del Debbio ha detto qualcosa circa la sua università che era “piena di africani” e il suo liceo di gente ricca, invece mamma gli comprava i cappotti tre taglie più grandi. La storia di Silvia Sardone, nata “in periferia di un pae- sino di provincia” che si è pagata tutto con le borse di studio, si era sentita già tre o quattro volte in giro per i talk show, anche con un certo effetto intimidatorio.

In ogni caso, il format tv “olio di ricino” e il presentatore un po’ prete e un po’ buttafuori sono un nuovo genere, forse i ladri della metropolitana e i rom che occupano le case avevano fatto il loro tempo e non facevano più ascolto. Come al solito non si capisce nulla, tranne che gli adulti parlano sopra ai ragazzi, che gli italiani sono razzisti e il format scatena i fantasmi di una specie di lotta di classe proibita dove i maranza vanno a menare i figli di papà. Chi non ha nulla vuole qualcosa, e la prende da chi ce l’ha già. Siamo in un saggio di Piketty sulle disuguaglianze o in un film dell’orrore con zombie in Nike tn che scendono in centro dalle periferie a fare brutto? Purtroppo in nessuno dei due: il paternalismo, il moralismo e la tragica sete di giustizia fanno rissa con la povertà, il disagio e l’ostinata forza di avere una vita e divertirsi a qualunque costo. E qui non serve nemmeno riprenderla col telefonino, la rissa, ci pensano le telecamere in hd dello studio di Rete 4.

Secondo una ricerca commissionata da Libero gli immigrati e gli italiani di seconda generazione rappresentano l’11% dell’Auditel, e guardano soprattutto Fuori dal coro di Mario Giordano e Dritto e Rovescio. Saranno mica gli amici di Simba e Baby Gang che con gli occhi rossi di kush si fanno due risate davanti a Giuseppe Cruciani che infama i trapper? Non lo sappiamo, ma il fatto saliente è che – se i dati sono confermati – i programmi “daje all’immigrato” sono i più guardati proprio da chi è costretto a incassare i colpi più bassi della battaglia identitaria. In tv il conflitto (virtuale) è gratis, blocchi pubblicitari a parte, e fa ottimi ascolti. Lo dimostra la regina delle maxi-risse televisive – il “tele-scazzo” per citare Dagospia – andata in onda nell’aprile del 2024 a, guarda caso, Dritto e Rovescio di Rete 4.

Protagonisti il conduttore Del Debbio e Mohamed Amine Amagour, in arte Baby Touché, trapper padovano noto, più che per la musica, per essere stato nel 2022 la prima vittima di una spedizione punitiva della gang di Simba La Rue, culminata con un’aggressione e un sequestro ripresi dai telefoni e postati in diretta sui social, quindi sospettato di essere il mandante dell’accoltellamento dello stesso Simba. Il gip Salvini, sempre lui, in un’ordinanza scrive di bande rivali “governate da regole di fedeltà reciproca e di omertà” che si sono rese “protagoniste di reiterati episodi di violenza”, seguiti “all’aspra conflittualità determinata dalle rivalità nella diffusione delle rispettive produzioni musicali”.

Entrambi i trapper negheranno ogni responsabilità, dicendo di aver inscenato una finta faida per fare spettacolo e farsi pubblicità, e così commenterà il gip: “È un mondo che esprime assoluto e rifiuto dell’intera realtà sociale in cui vive e in cui il pensiero normale, rispetto anche ai fatti più gravi, segue regole di ‘giustizia privata’ senza ricorrere alla giustizia ordinaria.

A chi la rappresenta non c’è alcun bisogno né si sente l’esigenza di dire la verità”. Con ospite Baby Touché le premesse per un talk modello “lotta nel fango” ci sono tutte. E lui non delude: si fa cacciare non una, ma ben due volte dallo studio, Del Debbio gli dice che “ha rotto i coglioni”, lui chiama tutti “zio” e “zia”, una di Fratelli d’Italia e Dj Ringo al quale dà pure del mafioso, anzi del “Totò Riina” per essere precisi, dice di non essere mai stato rispettato da quando ha messo piede nello studio televisivo.

Su questo non possiamo dargli torto. Fischi, toni isterici, buttafuori Mediaset che portano Baby Touché fuori dallo studio mentre gli autori in cuffia probabilmente sperano che questo momento duri in eterno. Alla fine Del Debbio si scusa con i telespettatori: “Chiedo veramente scusa. Abbiamo raggiunto un livello di una bassezza totale. Mi scuso di aver invitato personaggi di questo tipo. Con questa arroganza, questo modo di fare così becero...” Ma zio, scusa di cosa?

Alla stessa ora va in onda un soliloquio della Meloni nel salotto di Porta a Porta su Rai 1 e l’Auditel è spietato: vince Baby Touché. Che il giorno dopo pubblica una storia su Instagram: “Siete tutti uguali, avevate la possibilità di capire il motivo per il quale la nostra generazione è arrabbiata ma no, cercate sempre il modo di fare uscire il male che c’è in me per strumentalizzarmi. Sono la persona che è stata più pagata in quello studio, ho preso più soldi di quanti ne prende il conduttore in un mese, non mi ha invitato lui ma la direttrice di Mediaset.

Non vedo l’ora di venire ripagato per ascoltare dei frustrati parlare di me”. Il trapper non tornerà più in studio, fonti interne a Mediaset hanno rivelato che Piersilvio Berlusconi non abbia gradito la maxi-rissa nonostante Del Debbio fosse già pronto per un faccia a faccia riparatore. E il cachet sbandierato da Baby Touché è falso, il compenso è stato di circa mille euro. Però questa volta nessuno potrà dire che li ha rubati.

Come uscire dal Truman (talk) show? La soluzione ce la canta Baby Gang in un brano del rapper francese Jul, megastar di Marsiglia, Partire, certo non si sa per dove: Rimbaud e Cheb Khaled, quanto è malinconico il pessimismo della ragione...

Eppure una patria putativa Baby ce l’ha, e a Milano si muove dalla perif di via Padova passando per il Bosco Verticale fino ad Assago – dove ha fatto il suo primo grande concerto in un palazzetto, a dicembre 2024 – sul trenino della metro, molto simile a quello su cui Zaccaria dormiva da ragazzino quando scappava da casa o dalla comunità per minori. Lo stesso che scorre sul ledwall del palco mentre rappa con il collega italo- albanese Il Ghost ricordando quando si accampava in un vagone con cinque stranieri e veniva svegliato dai carabinieri.

Cavalcando la metafora, quel treno di Baby non si è più fermato e nessuno lo può più fermare, “direzione futuro” – dell’Italia, di quel che ne resta, di noi tutti. A bordo una comunità spesso difficile da intercettare, stigmatizzata o criminalizzata dai media, ma vitalissima e sorridente a tifare per il fra’ che ce l’ha fatta e sale sul palco preceduto dalle immagini di un mondo che va a fuoco, dall’11 settembre passando per la Palestina fino al Duomo di Milano.

Ecco. Se fosse un film, il concerto di Baby Gang sarebbe uno di quei carcerari che iniziano con l’inquadratura del portone. Una macchina carica di fratelli ad aspettare, motore acceso, musica dall’autoradio, o dai boombox introdotti illegalmente in carcere che sparano a palla Tupac come rappa Baby in Cella 2 sotto la protezione del neomelodico siciliano Gianni Celeste, e del suo gabbiano (il singolo del 1988 Tu comm’a mme/ Povero gabbiano diventò virale nel 2022 su TikTok finendo pure nella classifica Spotify), nume tutelare della musica di cui non comprendiamo la forza, il potere incantatorio.

Quel portone è una soglia. Magnetica. È la paura, la seduzione, la differenza tra noi e gli altri, i rispettabili e no. La rappresentazione visibile di imprevisti e possibilità di un ragazzetto di seconda generazione. In uno dei momenti meglio riusciti del piccolo musical sintetico che è stato il suo concerto, mentre canta proprio Cella 2 una gabbia scende a portar su Baby Gang verso l’alto della scenografia e a nasconderlo per un cambio d’abito – dal bianco della prima parte, al nero totale della seconda.

Guardate adesso l’immagine più celebre di quel mito di fonda- zione che è Jailhouse Rock con Elvis Presley, il film del ’57 che faceva esplodere i cinema, la scena di ballo in galera di fronte alla stessa scenografia di sbarre disegnate. Fate il confronto. Il film era una storia di riscatto con la musica, la morale era quella della necessità dell’amicizia nel mondo dentro e in quello fuori.

Il paradosso è che, proprio come ai primordi del rock’n’roll, coi Teddy Boys che a Milano solcavano come ondate via Torino molestando i passanti e rubacchiando qualcosa quando potevano (è storia vera, non leggenda, la indagò affascinato un giovane Pasolini sceneggiatore), oggi coi maranza scomodi ed eccessivi a partire dal nome, questa comunità è maggioranza. Sbanca ogni classifica di Spotify, YouTube e TikTok. È virale. Baby Gang è il virus. Si riproduce ogni due decenni. I ’50 del rock’n’roll, i ’70 della guerriglia di strada, i ’90 delle posse e del Leoncavallo eterno fantasma di questa città, Genova 2001. Baby Gang è il grido che sale dalle periferie. Già sentita? Il fascino e l’impoenza che guardavano la polizia scontrarsi coi giamaicani nella Londra anni ’60 e oggi sono i maranza che sfilano mascherati al quartiere Corvetto per dire la verità più semplice e trasparente, quella che tutti sanno, le sbarre di una cella disegnate enormi sopra la città in fiamme.

Chi è cresciuto ascoltando i Clash e Cheb Khaled, osannando le contaminazioni, non può che rimanere turbato di fronte alla dimensione sociale di questo rituale. Gli altri avranno tutto chiaro: i ragazzi, le ragazze, i bambini accompagnati dalle madri e i padri che osservano confusi il concerto. Tutti in cerca di identità e mitologie. Come sempre. Dentro la musica di Baby Gang c’è il montaggio di segmenti della trap americana e francese, i ritmi centroamericani e centroafricani, la posa reggaeton, la fissa per il pop napoletano – qui rappresentati da un enorme Geolier, probabilmente la più grande pop star del paese dai tempi di Pino Daniele e Troisi, nel segmento con Miez a Via cantata sullo sfondo di un’enorme Vela di Secondigliano, particolarmente suggestivo.

Arriva poi Ghali a cantare Marijuana con una canna in mano in posa Bob Marley, il profeta di ogni resistenza. E poi Fabri Fibra ed Emma Marrone con In Italia versione 2024 a chiudere il cerchio e il live, anello di congiunzione tra il rap nato dalle posse – si sente l’eco degli Assalti Frontali in lontananza – e la trap di oggi.

Quello che colpisce, ancora, non è la cosa in sé, ma il suo effetto collettivo sul pubblico. Se l’immigrazione è il terreno simbolico su cui si gioca la partita globale dei prossimi anni, Baby Gang parla la lingua del futuro, la politica quella del passato, della paura, della cella. Jailhouse rock.

Da Maxi-rissa. I diari della trap, Nottetempo, 2025


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