Ha scritto Gustave Flaubert che «l’artista deve fare in modo che la posterità creda ch’egli non abbia vissuto» e questa frase stava particolarmente a cuore a Milan Kundera, nato in Repubblica Ceca nel 1929 e morto mercoledì 12 luglio a Parigi, a 94 anni, che non a caso amava citarla. È in effetti una riflessione in cui lo scrittore francese poteva tranquillamente specchiarsi, se si considera la scelta radicale di parlare solo attraverso la sua opera, di essere presente nell’universo culturale esclusivamente attraverso le sue pagine e non la sua presenza.

Da quarant’anni infatti Kundera, aveva scelto di non rilasciare interviste e di non apparire dal vivo («Milan Kundera è nato in Cecoslovacchia. Nel 1975 si trasferisce in Francia» erano le poche righe biografiche che lo scrittore aveva concesso ai suoi editori), ma le sue opere più famose, su tutte ovviamente il romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, continuano a parlare alle più diverse generazioni, anche grazie alla fiducia straordinaria che Kundera ha sempre dimostrato di avere per la letteratura, mai vissuta come una missione («Tereza, una missione è una cosa stupida. Io non ho nessuna missione. Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi, di non avere una missione» scrive d’altronde in L’insostenibile leggerezza dell’essere), quanto piuttosto come una forma espressiva capace di pescare da un luogo antichissimo e fragile, quello che contiene la sapienza senza tempo del raccontare storie, arte di cui lui è stato imprescindibile sacerdote.

Il grande romanzo del Novecento

In Italia Kundera rimanda alla casa editrice che ne pubblica tutta l’opera dal 1985, Adelphi, che ha in questo autore uno dei suoi simboli più rappresentativi, desiderato personalmente dall’editore Roberto Calasso e mai più abbandonato. Kundera in realtà era stato già pubblicato negli anni precedenti da Mondadori e da Bompiani ma, mi racconta Ena Marchi, storica traduttrice ed editor di Adelphi, «nessuno se ne era accorto»: «La cosa curiosa è che quando in Francia uscì L’insostenibile leggerezza dell’essere, Calasso venne a sapere che Kundera cercava un editore che avesse voglia di prendere tutta la sua opera, perché non voleva stare a metà tra Mondadori e Bompiani e perché non era del tutto contento delle traduzioni. Così Calasso va a parlare con lui e gli racconta della casa editrice e della collana Biblioteca Adelphi, dove pubblica autori che certamente anche lui ama».

Sono gli anni in cui, continua Ena Marchi, «succede la stessa cosa con Simenon, perché praticamente in contemporanea Calasso scopre che anche Simenon voleva cambiare editore: così L’insostenibile leggerezza dell’essere esce per Adelphi nel 1985, stesso anno in cui escono i primi due libri di Simenon» (le cui opere vengono curate proprio da Ena Marchi).

Adelphi, consapevole del successo mancato delle prime traduzioni e del fatto che Kundera non era così conosciuto in Italia, procede con una tiratura molto cauta, ma il romanzo solo nel primo anno venderà più di duecentomila copie per poi raggiungere il milione. Si tratta di un romanzo che continua a parlare ai lettori di ogni età e infatti molti utenti su TikTok postano contenuti sul libro (mi racconta Marchi che nel 2022 le vendite del libro sono raddoppiate rispetto all’anno precedente).

Non si tratta di un aspetto scontato perché Kundera è uno scrittore che certo non strizza l’occhio alle forme romanzesche più contemporanee, ma anzi è radicato nel Novecento, immerso nelle tensioni geopolitiche del tempo, vissute anche sulla sua pelle, e in una scrittura che rimanda ai grandi maestri del secolo scorso: «Certo», mi dice Ena Marchi, «L’insostenibile leggerezza dell’essere appartiene ai grandi romanzi del Novecento perché è un libro indefinibile, che ha qualcosa degli autori amati da Kundera, come Hermann Broch o Robert Musil, in cui ci sono grandissime storie d’amore e poi tutta una parte “ragionativa”, “meditativa”, che lo fa assomigliare ai grandi libri del secolo scorso. Kundera diceva che con L’insostenibile leggerezza dell’essere e L’immortalità aveva chiuso l’epoca dei suoi romanzi “sinfonia” e quelli dopo, scritti in francese, li chiama romanzi “fuga”, liberi cioè da questa struttura novecentesca che unisce narrazione e riflessione. Ma io credo che già questi due libri aprivano a un modo nuovo di scrivere che apparirà con tutta la sua forza nei libri scritti in francese».

Sguardo laterale

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La lentezza, L’identità, La festa dell’insignificanza o i saggi raccolti in L’arte del romanzo sono i libri francesi di Kundera tradotti da Ena Marchi, libri che certamente offrono delle porte di accesso, magari laterali, ma certo importanti, alla sua opera: «Io ho tradotto L’arte del romanzo quasi quarant’anni fa e l’ho ripreso in mano un paio di settimane fa perché uscirà nella collana dei tascabili Adelphi. Mi ci sono letteralmente tuffata dentro perché è ancora un libro straordinario, non a caso citato e amato tantissimo, quasi inglobato nella mente di molti per quello che dice e le analisi che fa sul romanzo europeo. Ci sono in questo libro delle pagine formidabili sugli scrittori che ama (per esempio Kafka), ma anche illuminanti analisi sui suoi stessi romanzi e, più in generale, sulla funzione del romanzo, che non deve spiegare niente, ma anzi aprire su nuove dimensioni dell’esistente, interrogare continuamente i suoi lettori».

Avendo tradotto alcuni suoi libri Ena Marchi ha avuto spesso a che fare con Kundera e lo ricorda «sempre molto disponibile quando gli chiedevo qualcosa, ai tempi tramite fax»: «Era una persona gentile benché, come noto, molto riservato. L’unica volta che sono stato ospite nella casa sua e della moglie a Parigi, mi fu spiegato prima in maniera molto puntuale come arrivare perché ovviamente sul citofono non c’era il suo nome e era richiesta una certa discrezione! Sono stati una coppia sempre molto schiva anche se avevano persone amiche, per esempio erano molto legati a Calasso e a sua moglie».

Testi profetici

L’ultimo suo libro pubblicato da Adelphi, Un occidente prigioniero, raccoglie due conferenze di Kundera, una del 1967 e una del 1983 e sono testi estremamente attuali, letture lucide e profetiche sui significati della parola Europa: «Sì, in quelle pagine Kundera scrive che se ha un senso parlare di Europa si deve trattare dell’Europa della cultura. Non a caso quando gli chiesero una definizione di europeo rispose che europeo è chi ha nostalgia dell’Europa».

L’opera di uno degli ultimi maestri del Novecento offrirà sempre al lettore la possibilità di vivere il romanzo come sfida e non come forma espressiva accomodante: se, come lui stesso disse a Philip Roth in una celebre intervista, «il romanziere insegna alla gente a cogliere il mondo come una domanda», è proprio attorno a questa domanda che ogni sensibilità, e quindi ogni lettore, potrà trovare, o quantomeno cercare, il proprio posto.

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