Nella settimana del 4 luglio, che sembra esplodere fuochi d’artificio con più dubbi e meno ottimistici entusiasmi del solito negli Stati Uniti d’oggi, il New Yorker ha pubblicato un nuovo racconto di Jhumpa Lahiri. Credo sia il primo che abbia scritto direttamente in inglese da più di quindici anni. S’intitola Jubilee ed è, proprio come la ricorrenza in cui compare a stampa quest’anno, una vacanza grave, impensierita, i cui lembi di festa paiono stiracchiarsi sobri a coprire, senza nasconderlo, un profilo di tragedia. Non una vacanza in America però: una vacanza dall’America. Lahiri ci racconta, in prima persona, di un soggiorno a Londra nel 1977, per il decimo compleanno della protagonista-narratrice e per il giubileo d’argento della regina Elisabetta.

“Giubileo”, in italiano, è una parola che associamo subito alla gioia urlata del latino iubilare ma Lahiri, in una pausa etimologica del racconto, ci ricorda che l’origine sta nel termine ebraico per capro, montone, ariete. Dal corno del capro si ricava la tromba che, ogni sette settimane d’anni, le tribù d’Israele squillavano, comandate da un versetto del Levitico, per annunciare un anno dedicato alla libertà – «to mark», scrive Lahiri nel suo inglese tanto ricco quanto minimalista, «emancipation».

Tragedy o Jubilee

Non so se associare emancipation con l’indipendenza che gli americani festeggiano il 4 luglio o con la nostra liberazione del 25 aprile. Di sicuro, qui negli Stati Uniti, la parola è legata al destino di libertà del popolo nero, i cui intellettuali hanno infatti associato l’inesausta loro lotta per l’emancipazione dalla schiavitù a quella del popolo biblico. Nel racconto, la protagonista indovina una selva di cappucci bianchi del Ku Klux Klan nella fantasia geometrica di un’innocente carta da parati, forse perché sua madre l’ha addestrata a riconoscere ovunque un senso di tragedia. “Tragedy” è parola chiave, quasi un ritornello della storia – che potrebbe benissimo intitolarsi, nella sua sofoclea ironia, Tragedy invece che Jubilee. Lo stesso corno di capro che in ebraico dà la radice di “giubileo”, d’altronde, in greco dà quella per “tragedia”.

Jhumpa Lahiri è una filologa, il greco antico lo conosce e traduce – anche se, in Jubilee, non vi ricorre esplicitamente, lasciando a noi il compito di completare il circolo d’etimi che avviluppa il racconto. La sua passione per le parole è analoga a quella che i suoi personaggi mostrano verso le cose che notano, ricordano, collezionano. Le parole, nella sua narrativa in inglese, suonano spesso irriproducibili in sinonimi, minerali e irrisolvibili negli enigmi emotivi che evocano.

Da quando ha cominciato a scrivere in italiano sono diventate invece duplici: un tratto del suo stile, nella lingua che ha scelto, è quello di non scegliere: di concedersi due termini diversi per la stessa cosa, spesso connessi da una virgola (quasi mai una congiunzione) o da un "anche” (quasi mai preceduto da un “ma”). Non che in inglese, la lingua in cui è diventata una scrittrice di fama mondiale, la Lahiri degli anni Novanta e Zero fosse meno duplice, contesa com’è sempre stata tra immaginari bengalesi e statunitensi, la nostalgia materna e una specie di paterno futurismo.

Un altrove familiare

In italiano però quel con-tendere, quella tensione tra ciò che si dovrebbe e si vorrebbe essere, prende la forma di pacifiche biforcazioni: una compresenza, anche sintattica e grammaticale, invece che un sobbollente armistizio. Mi aspettavo di ritrovare la tregua armata dei suoi più antichi, premiatissimi racconti anglofoni in questo ritorno sul New Yorker, che è stata la casa editoriale di Lahiri prima di Nuovi argomenti.

Invece ormai il danno è fatto: il suo inglese, non meno perfetto, ha ora una latina grazia geminante e aggettivale, sempre sobria ma non più austera com’è stata a lungo. Quindici anni almeno d’italiano letterario hanno reso quest’autrice ancora più straniera a sé stessa – e forse per questo comincia a raccontarci di sé come di un familiare altrove da documentare, l’ultimo continente in cui, o da cui, migrare, come fa Alice oltre lo specchio.

Per leggere Jubilee, come per capire tutto quel che Lahiri ha scritto da quando Obama l’ha decorata con la medaglia nazionale delle Humanities, occorre leggere un suo libro di saggi, che nel 2022 (l’anno, per combinazione, dell’ultimo giubileo di Elisabetta, quello di platino, nonché della sua morte – nonché del cinquantacinquesimo compleanno dell’autrice e del decimo anniversario del suo trasferimento a Roma) rappresentò il suo primo serio “ritorno” (se questa parola ha un senso, da Eraclito a questa parte) all’inglese.

Quel libro s’intitolava Translating Myself and Others. Adopero il passato perché poche settimane fa Einaudi l’ha pubblicato in italiano in una forma diversa, più ricca e forse più definitiva, con un titolo nuovo, ispirato alla domanda che Lahiri continua a sentirsi ripetere da quando ha cambiato lingua: Perché l’italiano?

Se una risposta concisa esistesse, non ci sarebbe bisogno di un libro intero per formulare compiutamente questo interrogativo. Michela Murgia, che ai racconti trans-lingue di Lahiri su Roma pensò assai quando si mise a scrivere per Mondadori Tre ciotole, non voleva mai ridurre i “perché” a un “per chi”, ma l’italiano di Lahiri è così che si spiega: per Ovidio, per Calvino, per Dante, per Levi, per Gramsci, per gli autori cui sono dedicati i saggi raccolti nel libro.

E poi per quelli che Lahiri ha tradotto, e di cui scrive da quella prospettiva da centauro: di nuovo Ovidio, il Domenico Starnone maturo e fuoriclasse di una recente trilogia di romanzi-congegno, e naturalmente anche Jhumpa Lahiri stessa, incontrata come un’estranea tra le pagine del suo Dove mi trovo (Guanda, 2018) mentre diventava Whereabouts (Knopf, 2021). Aprite l’indice dei nomi alla fine del libro e troverete la vera risposta alla domanda che lo apre, che include Pavese e Palazzeschi, Lalla Romano e la lingua romena, Ferrante e Florio, Samuel Beckett e Salvatore Battaglia (quello del dizionario).

La madre

In questo straordinario cast di personaggi appassionati di parole quanto la protagonista-autrice, spesso stranieri e in gran parte ignoti ai primi lettori anglofoni del libro ma di casa tra quelli che lo leggeranno in italiano, la prima co-protagonista di Perché l’italiano? è una sconosciuta per chiunque.

Si tratta infatti della dedicataria di tutto il volume: Tapati Lahiri, la madre dell’autrice. Non credo sia volgare identificarla con la donna indiana che, nel racconto Jubilee sul New Yorker, è ritratta a metà tra due età impossibili da disgiungere, come i due volti del Giano bifronte sull’elegante copertina Einaudi: sia intrepida ragazza migrante a Londra, pronta a partire, in compagnia del proprio pancione di otto mesi, alla volta di Balham per visitare una cugina, sia intimidita anziana signora d’America, incapace di volare da sola per andare ad aiutare un’amica in lutto.

Questa donna di Calcutta lontana da Calcutta, i cui sari in seta diventano d’acrilico e la cui goccia rossa sulla fronte, un tempo applicata con pastose polveri vermiglie, diventa un adesivo rosso usa-e-getta, è l’interlocutrice centrale di Perché l’italiano? Nella sua voce quella domanda diventa forse un rimprovero, se non una smarrita crisi d’identità: perché l’italiano, che c’entra? Non è la lingua della famiglia d’origine, non è la lingua della scuola e del lavoro, non è nemmeno la lingua del marito annunciato dalle profezie di un’amabile zia onoraria. Di chi è questa lingua straniera a tutti i personaggi della narrativa classica di Jhumpa Lahiri? Per chi è?

Leggendo Translating Myself and Others in inglese ho pensato che fosse un omaggio di Lahiri a sua madre. Dicevo che è la prima co-protagonista del libro perché il primo capitolo parte dal primo dubbio traduttorio che l’autrice, a cinque anni, incontrò alle elementari: alle prese con un lavoretto per la festa della mamma, non riusciva a decidere se rivolgersi alla sua con “Mom”, che funzionava identico per tutti i suoi compagni di classe nati in America, o con il “Ma’” che usava in casa per parlare con lei, tra bengalese e inglese.

Leggendo ora, in Perché l’italiano?, lo stesso primo capitolo nella mia lingua, mi viene il sospetto che, oltre che un omaggio, questo libro sia anche un amorevole oltraggio, come in fondo ogni atto di traduzione che si rispetti.

L’emancipazione

Perché l’italiano? Per me. «To mark emancipation»: per emanciparmi, per liberarmi, dalla (lingua) madre. O forse per Ma: perché lei presagiva la tragedia, la tomba, laddove io potrei riuscire a trovare la tromba di un giubileo.

In questo presente inquieto, in cui ci si vergogna a celebrare il 4 luglio ed è minacciata persino la memoria del 25 aprile, l’ambiguità della traduzione ha a che fare col coraggio: con l’onorare le identità proprio nel momento in cui le si disfa. Nell’epoca dei muri è Giano, dio della soglia, il patrono che ci serve per capire la differenza fra freedom ed emancipation, tra i possibili significati del corno ritorto del capro. È il momento ideale, dunque, per leggere la magistrale prosa, ormai intrinsecamente bilingue, di Jhumpa Lahiri.

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