Il 19 ottobre scorso, il dipartimento di traduzione e interpretazione dell’Università di Bologna ha conferito la laurea ad honorem a una delle più grandi scrittrici viventi in lingua italiana, Jhumpa Lahiri.

Per l’occasione, Lahiri ha pronunciato una lezione su un autore che, come lei, ha imparato l’italiano dopo essere stato cresciuto in un’altra lingua, il sardo, e ha poi scritto in (e tradotto da) altre lingue ancora: Antonio Gramsci, slavista e germanista oltreché ispiratore degli studi postcoloniali e icona globale del socialismo.

Lo ha fatto dopo aver rivolto alcune parole in bengalese a suo padre, che era forse l’unico non italofono nella gremita platea del teatro Duse. E dopo aver scritto un lungo saggio in inglese sullo stesso argomento, che uscirà l’anno prossimo nel suo atteso libro di saggi Translating Myself and Others, per Princeton University Press.

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Ascoltare Jhumpa Lahiri parlare di Gramsci, tanto potentemente anche se solo via video e da migliaia di chilometri di distanza, mi ha acceso ancora di più in cuore la convinzione che chi in questi giorni riduce le dibattute questioni di genere, di diritti, di politicamente corretto a “mera linguistica”, scindendole da una presunta “vera politica”, non ha mai capito un accidente né di linguistica né di politica.

Non è solo Orfeo ad aver creduto di cambiare, per davvero, la realtà con le parole. Il nostro massimo marxista ha spiegato al mondo che le bistrattate sovrastrutture non vanno affatto sottovalutate, che i media (e in particolare il medium più potente: l’educazione) sono apparati ideologici essenziali per costruire una contro-egemonia, che tra le funzioni degli intellettuali primeggia quella di rilanciare e organizzare le esistenti resistenze delle masse allo status quo, alla norma.

Come chi davvero sa scrivere, Lahiri è una lettrice finissima, scrupolosa. Ha attraversato con dedizione monastica, per due mesi, le Lettere dal carcere, estraendone un umanissimo ritratto di Gramsci traduttore (nonché tradotto, nell’inusuale accezione di “traduzione” che si usa per indicare gli spostamenti dei detenuti). Mi ha colpito in particolare la sua intuizione sul fatto che Gramsci è stato padre soprattutto attraverso le sue parole scritte, in un andirivieni di biglietti mediati da sua moglie Giulia.

Non so se questa riflessione sulla paternità, sospesa tra lo sgomento di scoprirsi fantasma e l’entusiasmo per i successi linguistici dei bambini lontani, sia sufficiente a fare della lectio bolognese una delle nostre maschili cose di questo autunno. Ma certo penso che chi legge la rubrica amerà l’acume ibridante e orfico di queste pagine inedite di Jhumpa Lahiri, in uscita questa settimana su Domani per Cose da maschi.

Dal canto mio, davvero frustrato dal tenore degli editoriali usciti dopo l’affossamento della legge Zan in Senato (scritti tutti da gente che evidentemente Gramsci non lo ha letto o non lo ha capito), ho ben pensato di scrivere di baffi.

Una cosa che mi pare sfugga a chi rifiuta di riconoscere in sé il privilegio di non dover credere a chi combatte per esistere (nell’inaccessibilità di grammatiche, strutture architettoniche, leggi dello stato) è che tale privilegio gli impedisce anche di (ri)conoscere sé stessi, di prendersi cura della propria specificità. La condizione di privilegio, da qualunque prospettiva la si inquadri, è un fatto di beata (o semplicemente pigra) ignoranza, di mancanza di responsabilità. Consiste nel lusso di non doversi indagare, di non dover imparare nulla di sé, di essersi alieni. Di non trovarsi mai nella condizione, come spiego nel pezzo (che trovate qui) del Lucky Starr di Isaac Asimov, senza baffi negli oceani di Venere.

La parola che sto adoperando, privilegio, col suo etimo condiviso con “privato” e con “legge” che allude a diritti speciali, non aiuta molto a capire il contesto in cui ne faccio uso. Il privilegio di cui parlo non è affatto speciale – o meglio non sa di esserlo, come appunto i venusiani di Asimov. Né è necessariamente (ecco il punto) un vantaggio.

Alle donne si impone di contemplare la propria subalternità e chiedersi cosa significa essere madri, o dubitare dei vestiti che indossano, ma anche di considerare il proprio specifico psicofisico: pàlpati le mammelle, prenota visite ginecologiche, nota l’insorgere di disturbi alimentari, eccetera. In quanto “normali”, invece, ai maschi non si chiede di conoscersi in quanto tali altrettanto intimamente, e dunque la sensibilizzazione sul cancro alla prostata e ai testicoli, o sul suicidio, rimane insufficiente.

Per rinforzarla, a partire da un’iniziativa australiana chiamata Movember, da vent’anni gli attivisti per la salute maschile si fanno crescere i baffi durante il mese di novembre, invitando chi, vedendoli di solito glabri o con baffi più corti, gli domanda perché, a fare lo stesso e a informare il prossimo.

Questa specie di silente fratellanza che aliena i maschi, come baffute Gioconde di Duchamp, alla loro alienazione da sé, che gli (ci) permette di conoscersi in quanto improvvisamente (ir)riconoscibili altri, come promettono di fare i microbi che forse la Nasa ha recentemente scovato nei cieli di Venere, ha avviato un dialogo globale su come istruire i ragazzi sulle sfide specifiche che il loro corpo rischia di dover affrontare.

Per il resto di novembre tenterò di raccontare alcuni nodi di questo dialogo, nato dai baffi non su Venere ma in Australia.


Uno degli obiettivi di questa newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio, è quello di mappare e allargare la percezione della maschilità che le cose e gli oggetti ci restituiscono, per cui non esitate a scrivermi qui: agiammei@brynmawr.edu per proporre idee, prospettive e memorie.
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Alessandro Giammei

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