Durante lo scorso weekend c’erano simposi paludati che si tenevano in contemporanea da più parti. Per esempio il letterario “Incontri di civiltà” a Ca’ Foscari a Venezia, per dire, dal quale traiamo la perla di uno degli ospiti, Lazlo Krasnahorkai: «Non guasterebbe affatto che una nuova specie apparisse davvero, e ci desse finalmente il cambio: sarebbe un bene per tutti».

Nell’attesa di questo augurabilissimo evento – e non scherziamo affatto – noi umani si fa quel che si può, ed è un momento specialissimo (inutile ripeterlo) che richiede di rispolverare facoltà e parole che non si pronunciavano spesso: la mitezza per esempio. Come capacità di rendere di nuovo il mondo quello che potrebbe/dovrebbe essere sempre: un mondo dolce e abitabile.

Musica e baci

Il festival “Della bella musica e dei baci”, Mi-ami, è da oltre dieci anni la celebrazione di tutto questo. Condotto da un manipolo di ragazzi (ora ex ragazzi, ma con le facce da bambino), capitanati da Carlo Pastore, apre l’estate italiana – e milanese – con una tre giorni esclusivamente dedicata alla musica italiana che una volta si chiamava indie e dal quale sono passati per la prima volta tutti i protagonisti più significativi dell’attuale olimpo musicale nazionale. 

Per questo rappresenta un punto di osservazione privilegiato su ciò che è e su ciò che accadrà, specie ora, che si può fare, dopo due anni di fermo, e di baci dati solo in casa o solo con la mascherina. A proposito di questo, il festival è gentilissimo, colorato e volutamente infantiloide nell’identity, ma questo non significa che sia beota: «Vogliamo i vostri baci e non i dati» c’è scritto sul portale di ingresso, un modo istantaneo per risolvere una questione fondamentale, ed eliminare una (capitalista?) spina nel fianco che alleggerisce ancora di più mente e corpo, e device a questi collegati.

La gioia di suonare

Raccontare tre giorni non si riesce. Ma il segno generale sì. E si può ben dire che la scelta della scaletta si è ancora di più allontanata dalla già rarefatta presenza dei liricisti, e anche di quella generazione cantautorale replica aliena del Battisti 1970-1974 (con Anima Latina al centro) che si ritrova ancora qua e là, ma, pur amatissima e cantantissima, riporta ormai a certe sincronizzazioni del geniale Summertime di Netflix.

Mi riferisco in particolare a Giorgio Poi e Marco Castello e ad alcuni pochi altri della lineup. Che sia finito il tempo di tirar fuori in continuazione alcune fatiche del vivere siamo d’accordo, ma è terrorizzante vedere come una certa scuola – simile a molto esangue cinema italiano dagli anni Ottanta in poi – si rintani in «tinelli, spiaggette, ghiaccioli, zampironi e cucine, microcosmi fatti di piccoli amori che a sprazzi sembrano illuminarsi poco poco ma poi no. Un accontentarsi under 35 che registra una disillusione totale che dal macro si rifugia nel micro, nella barzelletta neoliberale in cui tutto ciò che conta sono le piccole cose, solo te stesso, il tuo piccolo mondo personalizzabile e brandizzabile, peroni e zampironi appunto» (come osserva la giovanissima antropologa sociale Agnese Maccari, interrogata sul tema).

A questo si contrappongono per fortuna altri tipi di mitezza meno flaccide, ma con geometrie più postmoderne e soprattutto con humour vero (quelli di Tutti Fenomeni e di PopX, ottimi), ben più muscolari o comunque pensose (vedi Generic Animal, anche).

Una forza che nasce soprattutto dal ricorso a vecchie lontane pratiche, ai rituali folk di esorcizzazione del male ed elevazione del mondo, della sua glorificazione allegorica (perché c’è da togliersi di dosso un grande dolore, ricordiamolo). A questo si è appellato – come sempre, ma più del solito – Venerus con un set scintillante. Vestito da Vitelli come un Prince cosmico, pants attilati, fisico scolpitissimo (poi praticamente nudo a un certo punto, e dopo con uno straccetto addosso), ha impiantato con una fantastica tiara/copricapo con le orecchie (da santo di paese/cardinale/faraone di un Egitto o di impero Maya immaginario) un rituale funky con tutti i musicisti in casacca candomblè, stravolgendo il suo repertorio specie dell’album 2021 e ritorcendo tutto con una gioia di suonare assoluta, di suonare gli strumenti proprio, altro elemento che si è sentito dappertutto.

Come stare a Bologna

Dai milanesi Studio Murena (hyperjazz evoluto, con quel tocco speciale di tastiere e batteria, e un cantante che ha imbarazzato un bel un po’ continuando a urlare in continuazione “Ciao Milanoo” di fronte a milanesi e lui pure) agli ormai pronti al decollo Post-nebbia, altro nome e set molto buono.

Ma anche nel trionfale di Iosonouncane domenica sera, per esempio, nel quale l’abituale delirio NineInchNails+Goblin del nostro (che, ricordiamolo, è l’unico artista italiano per due anni di fila, incluso questo, ad essere ospite del Primavera Sound di Barcellona) si affianca un cantato nella lingua che si è inventato da solo che – messo tutto insieme – riporta in ogni caso ai potentissimi mantra della Sardegna da cui proviene.

Questo ricorso al popolare, alla tradizione come potente antivirale della paura circolante (non solo della guerra o del virus o del clima, ma anzitutto della povertà in arrivo in autunno, del ritorno al precariato peggiore) circolava dappertutto: dall’ottimo ripescaggio di Alan Sorrenti – molto legato alle sue origini primi Settanta, non a caso, e poi disco, con un perfetto pezzo nuovo in giro – al baraccone terrore del Bar Mediterraneo dei Nu Guinea (un trionfo nell’ultima sera, hanno pure trascinato per la prima volta due ospiti fru fru internazionali al festival e lo stesso faranno in una delle serate del festival Club to Club a Torino, a novembre).

E a proposito a Napoli: la cosa migliore vista in assoluto è stato venerdì sera il commuovente momento di teatro musicale dei Thru Collected, per il quale la parola “collettivo” prende un senso dal vagare bevuto rilassato e esilarante della decina di soggetti, alcuni/e che si alternavano al microfono o altri – in cinque o sei – a guardare stonati il laptop, che buttava fuori beat anche duri e a volte vecchia drum&bass d’annata.

Abbracci tra amiche e amici sul palco, tutti scaciati in vario modo, quello con faccia bellissima e pulita di Scampia insieme a quello con gli occhiali da keta, ragazze che cantavano quasi in trance e ancora folk folk folk che viene fuori dappertutto e ancora gli anni Settanta delle cantine (di Leo De Bernardis ma soprattutto Enzo Moscato, e in generale l’underground meraviglioso del ritorno politico e psichico alla forza popolare di quegli anni).

Thru Collected sono la purezza. La purezza dell’umano, quello che forse non andrebbe ancora soppiantato, ma preservato. Quello che serve anche alla città che genera l’intero “Mi-ami”, con solo gente normale tra il pubblico, solo quale brillantino “Euphoria” intorno agli occhi. Non c’era nessuna, ma proprio nessuna delle fighette (eh sì) under 40 vestite a puntino luxurywear che compongono le mailing list degli eventi comme-il-faut e che fanno tanta invidia inutile alle altre città. La cosa più bellina l’ho sentita da un tipo emiliano con cui stavo chiacchierando: «Si sta benissimo. Guardali, sono tutti normali, vestiti a cazzo. Sembra di stare a Bologna».

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