Riconosceva di avere «l’animo delicato e serpentesco» adatto al compito ed è probabile che lo facesse anche per quel piacere che sottostà a ogni recensione, secondo Virginia Woolf, il piacere di «sentirsi costretto a esercitare un giudizio».

Dopo aver pubblicato Concupiscenza libraria, Adelphi porta in libreria Altre concupiscenze, la continuazione, il sequel, la seconda puntata di una raccolta di recensioni firmate da Giorgio Manganelli che vorremmo eterna.

E con entrambi i libri tra le mani, ritorna alla mente come ogni volta che uscisse da una libreria Manganelli si guardasse intorno con circospezione, come se qualcuno potesse davvero rubargli il libro appena comprato, subito lo sottraeva alla vista dei presunti predatori, ficcandolo in borsa, e finché non tornava finalmente a casa temeva per l’incolumità sua e del suo nuovo acquisto.

Sorniona sprezzatura

Quando scriveva per i giornali si immalinconiva se non riusciva a farsi capire. A distanza di anni ricordava ancora quanto gli fosse dispiaciuto quando l’accusarono di aver dileggiato i sagrestani in un corsivo su un loro recente sciopero che aveva paralizzato le sacrestie. A suo dire quel corsivo era stato scritto, al contrario, con molta simpatia e affetto.

«La gente dovrebbe leggere un po’ di umoristi inglesi», suggeriva sconsolato. E non accettava volentieri che qualcuno correggesse i suoi scritti.

Un giorno dei primi anni Ottanta era arrivato al Corriere un suo articolo. Leggendolo, si accorsero di una ripetizione e preferendole un sinonimo la eliminarono. La mattina successiva, appena il tempo di comprare il quotidiano in edicola, e Manganelli, accortosi del ritocco, telefonò in redazione per bacchettare la scelta. Per spiegare «che prediligeva le ripetizioni, le allitterazioni, le cacofonie». Per raccomandarsi, qualora fosse successo un’altra volta, di non azzardarsi a toccare più nulla.

Come premessa alle sue recensioni sembra di leggere la massima di Albero Savinio: «Avverto gli imbecilli che le loro eventuali reazioni a quanto sto per dire cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza». Le scriveva con una sorniona sprezzatura, e del resto l’umiltà è un requisito apprezzabile in chi sbaglia spesso, e a Manganelli non serviva poi così tanto.

Elena Spagnol rievocandone la famelica appetenza, non soltanto di stomaco ma anche onomastica, raccontò che aveva dato un nome a molti dei piatti che mangiava a casa sua: uno dei budini alla violetta l’aveva battezzato «l’ectoplasma della zia è venuto a prendere il tè» e un formaggio sardo, il cui casaro nel frattempo era morto, Manganelli lo chiamò il «formaggio postumo». Mangiava a tavola come se nel piatto ci fossero libri, e viceversa.

Sognatore metodico

Il lettore esimio «è colui che sa dire, come scrisse una volta mirabilmente Scheiwiller, non l’ho letto e non mi piace. Il vero, estremo lettore di professione potrebbe essere un tale che non legge quasi nulla». O quello che legge quasi tutto, com’era lui. Sono centinaia gli scrittori evocati nelle pagine di Altre concupiscenze: c’è il «disamore da maestro lapidario» di Fleur Jaeggy; c’è l’illusionismo di Vladimir Nabokov; c’è la notte labirintica in cui si perde leggendo Borges; e c’è il consulente in reincarnazioni che darebbe un contributo allo studio della personalità letteraria di Alberto Arbasino scovando un priorato trecentesco, insieme godereccio e monacale, sperduto a oriente.

«Un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia, soprattutto, è un infinito labirinto, ed un enigma che non vogliamo sciogliere, perché la sua misteriosa grandezza dà un oscuro senso alla nostra vita»: esiste una definizione più grandiosa di cosa sia un biblioteca?

Era il 23 febbraio del 1981 e in via Guido Banti 34 c’era la casa di Ludovica Ripa di Meana. Si svolse tra quelle stanze romane una delle interviste più memorabili concesse da Manganelli. Nel sommario il servizio è presentato da queste righe altisonanti e comiche: «È un uomo brutto, decisamente grasso: così si descrive il più misterioso scrittore contemporaneo. Manganelli non ama le biografie. Ma per l’Europeo ha accondisceso: parla della sua vita, del sesso, del cibo e del suo ultimo libro».

Manganelli non deluse le aspettative e nelle ventitré pagine che la rivista gli dedicò appare di buonumore, abbastanza disponibile, anche se a volte quasi iracondo e altre renitente, ma pur sempre assecondando, se non proprio soddisfacendo, le curiosità dell’intervistatrice.

Dice di essere un sognatore metodico e accanitissimo, dice di amare la musica perché non significa nulla, dice tantissime altre cose, ma nonostante tutte quelle pagine a disposizione per l’intervista la più semplice e sciocca delle domande non venne formulata. Signor Manganelli, perdoni la stupidità dell’interrogativo, ma quali sono i suoi libri preferiti?

Libri sacri

Provo ad avanzare questa duplice ipotesi. Innanzitutto l’elenco telefonico. Nell’unico inedito pubblicato nella raccolta Ufo e altri oggetti non identificati, Manganelli scrive che di tutti i prodotti dell’ingegno contemporaneo, in nessuno il magico e il prodigio della scienza si incontrano come nell’elenco ufficiale degli abbonati al telefono.

«Raffinata miniaturizzazione degli abitanti di un agglomerato, ciascuno dei quali è caratterizzato dall’immobilità, la saldezza onomastica, la solitudine», l’elenco telefonico, prima ancora che un servizio pubblico, è un’opera religiosa. L’ultimo grande Libro. Il Libro sacro. Non è mai stato scritto, non ha autore e il suo leggio è il cielo. Si tratta di «un talmudico elenco di numeri, ai quali, disperati naufraghi nei meandri della città mostruosa, si aggrappano minuscoli, forse fittizi nomi», e chi ritiene «che, dopo il Libro dei Mormoni, l’occidente non abbia più creato un Grande Libro è pregato di sfogliare l’elenco del telefono».

E l’altro suo libro prediletto, quale sarebbe? Nulla di prevedibile o scontato, ovviamente. In un articolo rimasto inedito fino alla pubblicazione per Bompiani, nel 1974, del volume Cina e altri Orienti e da qualche anno disponibile per Adelphi Giorgio Manganelli scriveva: «L’occhio non si è perso stancamente nel verde, non ha indugiato sui rami goffi, ma ha seguito fulmineamente un itinerario grafico, tutti i nodi del legno, gli stacchi e gli incroci dei rami, le nervature delle foglie si sono disegnate nell’aria, l’albero si è rivelato non dipinto da un creatore stanco e ripetitivo, ma disegnato, la mano nervosa ed esatto di un inventore di piante ha annotato un segno difficile e sapiente, un tronco, degli alberi ugualmente divisi tra sofferenza ed eleganza».

La corteccia dei tronchi cinesi è l’altro suo insospettabile libro preferito, «l’infinita olografia dell’albero, dipinto-scritto sugli antichi rotoli, (…), gli alberi irrequieti e immobili a nord di Pechino. (...) Basta una settimana di alberi di Cina, una settimana di quella pervasiva scrittura nera verde rossa gialla, ed un sospetto di scrittura si stenderà sugli alberi che troverete sulla strada consueta e povera della vostra vita europea, un presentimento di ideogramma, di simbolo, una immota oleografia».

L’elenco telefonico e gli alberi cinesi: i due libri sacri di Giorgio Manganelli, inimmaginabili. È indubitabile che dopo quelle dedicate a Dickens, Yeates, London, Landolfi e Calasso, ancora molte altre impreviste e impossibili concupiscenze libraie ci aspettino.

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