Nicholas Jubber parteciperà questa sera a Letterature, il festival internazionale di Roma presso lo stadio Palatino con un intervento dal titolo “Un ponte di molti poemi epici”. La traduzione di questo testo è a cura di Andrea Asioli.

Un autobus sta sbandando su un piatto e polveroso paesaggio ai bordi dell’Iran. Grattando rumorosamente le marce, l’autista ferma il mezzo. Dalla portiera irrompe un’ondata di luce solare, e nel corridoio centrale volano degli scatoloni, seguiti da sacchi di iuta, secchi, sporte di plastica e una moto Honda. È l’ultima fermata prima del valico di frontiera per l’Afghanistan. Sgranando il suo rosario musulmano, l’uomo seduto dietro di me mi mette in guardia sui nuovi arrivati.

«Mujaheddin», dice: combattenti nella guerra in corso in Afghanistan. Sono già abbastanza nervoso anche così. La maggior parte degli iraniani mi ha sconsigliato di intraprendere la traversata: ti tagliano la gola, ti rubano i soldi, fanno cose terribili al tuo corpo.

Ho ventisei anni, sto viaggiando da solo dopo otto mesi trascorsi a Teheran, dove ho studiato il persiano e vissuto nelle case di un critico cinematografico, un artista e un poeta dissidente, rimpinzandomi di pasticcini e bevendo più tè di quanti possa reggerne persino la costituzione di un inglese. Quindi non mi sento affatto pronto per il viaggio in Afghanistan.

Il libro dei re

Quando uno di questi mujaheddin si piazza sul sedile accanto a me, il cuore inizia a battermi a mille. Prende il libro che sto leggendo e sfrega le mani sul frontespizio: un magnifico coacervo di punti dorati, intricati riccioli, lunghi steli dentellati. «Sei kharejeh?», mi chiede. «Straniero?» Negarlo sarebbe improponibile, quindi rispondo con un mite cenno del capo e seguo i suoi occhi fino alla copertina del libro. «Allora perché», chiede, «stai leggendo il nostro massimo poema?».

Il libro è lo Shahnameh: il “Libro dei Re”, una raccolta di narrazioni che parte dai primordi della creazione e arriva alla conquista araba, una storia mitica del popolo preislamico di lingua persiana. Vi si racconta, tra l’altro, di un tiranno dalle cui spalle spuntano serpenti che ogni giorno si nutrono del cervello di due giovani, finché un fabbro non guida una rivoluzione e il tiranno viene ucciso; di un potente guerriero che inganna un guerriero più giovane e lo sconfigge in battaglia, salvo poi scoprire che il giovane è suo figlio; di un’altra battaglia tra lo stesso potente guerriero e un altro formidabile avversario, il cui corpo è interamente corazzato di metallo, tanto che può essere ucciso solo se lo si trafigge con una freccia a doppia punta negli occhi; della storia d’amore tra un eroe che viene allevato da un uccello magico su un albero e una principessa che vive in una torre e ha i capelli come Raperonzolo; della conquista della Persia ad opera dell’esercito di Alessandro Magno. Fu scritto più di mille anni fa, da un poeta irascibile che viveva nel Khorasan, vicino a quello che oggi è il confine iraniano-afghano: un uomo assillato dalla mancanza di soldi e dallo scarso apprezzamento che riceveva dai suoi mecenati. Un poema vecchio di mille anni, insomma.

Eppure, non appena ho iniziato a divorare quelle storie, ho capito subito che non si trattava di una polverosa reliquia: quelle storie erano tra le più avvincenti e colorite che avessi mai letto. E nei miei viaggi in giro per il mondo persiano ho incontrato molte persone che ancor oggi ne fanno tesoro: studiosi di Teheran, Dushanbe e Kabul, veterani di guerra che le recitavano per spronare i loro compagni nelle trincee della guerra Iran-Iraq, un condottiero afghano loro appassionato lettore, artisti e attori iraniani impegnati a reinterpretarle. Questo profondo legame tra i racconti del passato e il mondo del presente è emerso in tutta la sua evidenza, proprio davanti ai miei occhi, quando nel 2009 sono scoppiate le manifestazioni contro il presidente iraniano in carica, Mahmoud Ahmadinejad, e alcuni dei manifestanti hanno citato il racconto del tiranno con i serpenti che gli sporgono dalle spalle. «Come il malvagio Zahhak», mi dissero, «il regime sta distruggendo la nostra gioventù».

Quel viaggio in Iran e Afghanistan mi ha insegnato molto: ad esempio l’importanza di tenere la testa bassa quando dei combattenti talebani passano davanti alla macchina in cui ti trovi, di tenere la bocca chiusa nelle case da tè e di pagare il pedaggio quando a presidiare la corda del posto di blocco sul ciglio della strada c’è un oppiomane. Ma di tutte le lezioni, la più importante riguarda le storie narrate: storie antiche, storie tradizionali, storie forgiate dall’amalgama di molte generazioni diverse; storie recitate intorno a fuochi da bivacco, nelle sale di re e regine, nei mercati e nelle piazze dei villaggi. Trascuriamo queste storie a nostro rischio e pericolo. Perché ci sono buone ragioni se sono arrivate fino a noi, se continuano a essere tramandate di generazione in generazione. Queste storie gettano un ponte tra le generazioni e, nella loro espressione migliore, tra le culture.

Prendete la storia del tiranno coi serpenti sulle spalle: per gli iraniani, ai tempi della guerra Iran-Iraq, rievocava il carissimo prezzo pagato dai loro giovani, morti sul campo; per la generazione successiva riecheggiava le loro stesse frustrazioni nei confronti degli anziani mullah al governo; ma parlava anche a me, giovane inglese desideroso di stringere nuove amicizie in Iran e di eludere l’ombra dell’orientalismo, l’eredità della Anglo-Iranian Oil Company e il perdurante mito iraniano secondo cui «sotto la barba dei mullah c’è scritto “Made in Britain”». Quella storia mi ha aiutato a legare con gli studenti di Mashhad, che mi hanno accolto nel loro dormitorio, versato tazze di arak di contrabbando e invitato a unirmi a loro in un gioco segreto da studenti: tracannare le nostre bevande e stramaledire il Leader Supremo – il loro moderno tiranno dalle spalle di serpente – e le sue rigide restrizioni teocratiche, che detestavano. A volte abbiamo bisogno dell’aiuto del passato per dare un senso al presente.

Storie europee

Più di recente ho viaggiato sulla scia di altre storie: storie antiche, perlopiù, storie raccontate da bardi greci e romani, guslar balcanici, crociati in marcia verso la Terrasanta, scop anglosassoni, pupari siciliani, trovatori francesi, minnesinger tedeschi, skald islandesi... storie europee.

Vengo, come avrete capito, da una nazione insulare che negli ultimi anni ha avuto un rapporto un po’ ambiguo con la terraferma continentale, e volevo capire cosa significhi essere europei esplorando le nostre antiche storie. E così ho viaggiato dalle rovine dell’antica Troia al sito di una fattoria medievale dov’è ambientata la più celebre delle saghe islandesi. Nel corso delle mie peregrinazioni ho dormito nella camera tombale di un antico guerriero nel Peloponneso e, sull’isola di Itaca, ho posato il mio zaino accanto alle rovine del palazzo dove secondo gli archeologi vissero Ulisse e Penelope; rovine da cui sono stato cacciato da un temporale divino. Ad Atene ho incontrato un musicista che suonava la lira mentre membri del pubblico leggevano brani dell’Odissea, e ho parlato di questo antico racconto con alcuni dei lettori volontari lì presenti. «Questa storia la sentiamo come nostra», ha detto una signora ateniese di nome Vera. «Il fatto di superare una difficoltà dopo l’altra, i Ciclopi e tutto il resto, be’, sembriamo noi. È come se stessimo vivendo quella storia, mentre la leggiamo! Tutti i problemi che oggi ha la Grecia, tutte le nostre sofferenze».

Come nei precedenti viaggi in Iran e Afghanistan, mi sono trovato di fronte a un tunnel spazio-temporale tra i secoli: un legame psichico che connette le persone ad avventure risalenti al passato. Storie epiche, nella fattispecie, che – come una forma di consolazione – forniscono prospettiva, rassicurazione e speranza: «Se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi». Ma questo è solo uno dei tantissimi usi che si possono fare di queste storie.

Al confine tra Francia e Spagna, una lettura del poema epico medievale francese – la Chanson de Roland – venne interrotta da un manifestante basco che sottolineò come la battaglia storica dell’VIII secolo da cui il poema trae ispirazione fosse stata vinta dai suoi antenati. Nel frattempo, nel vicino sito in cui cadde il paladino Orlando alcuni manifestanti baschi issavano bandiere e rivendicavano la propria indipendenza. Più a nord, lo stesso poema epico veniva citato da Marine le Pen, e il deuteragonista della Chanson, l’imperatore Carlo Magno, era stato a lungo oggetto di un irrisolto tiro alla fune tra Germania e Francia. La stessa storia l’ho poi ritrovata in Sicilia, nella reinterpretazione straordinariamente divertente dei pupari, con il paladino Orlando, Rinaldo e Carlo Magno intenti a eseguire le loro mosse secondo i moduli di combattimento dello “squadrone” e della “battaglia”, e con i cavalieri saraceni intenti a spaccarsi in due sotto l’arco di proscenio, tra nastri rossi che si srotolavano dalle marionette squarciate a metà a raffigurare gli spargimenti di sangue.

Interpretazioni

La gamma interpretativa dei poemi epici è vertiginosamente contrastante ed eterogenea. Alcune persone trovano dei legami con le proprie radici, un senso di comunità, un patrimonio condiviso, il nucleo delle identità nazionali o provinciali. Per altre persone, i valori dei racconti sono più universali, ed è nelle narrazioni tematiche che si ricava il vero significato. Ogni generazione trova una nuova chiave di lettura per questi racconti, e all’interno di ogni generazione ci sono individui con le loro interpretazioni idiosincratiche. È questo il paradosso delle storie epiche: la gente si affida a loro per riceverne stabilità, per quel nucleo roccioso su cui aggrapparsi a un senso di identità e valori condivisi, ma ci sono poche cose instabili quanto le storie epiche.

Insieme ai poemi epici, spesso le nazioni costruiscono la loro identità attorno a un animale totemico: il drago gallese, l’aquila tedesca, la lupa di Roma. Ecco un modo per capire le storie epiche. Come gli animali selvaggi, i poemi epici sono belli da osservare, ma se li stuzzicate incautamente possono mordere. A Belgrado ho visitato un bar dove un tempo il condottiero Radovan Karadžić andava a suonare la gusla, uno strumento tradizionale simile al violino. Karadžić amava recitare le canzoni del Ciclo del Kosovo, una travolgente serie di episodi poetici su una battaglia del XIV secolo. Mentre l’impero ottomano si aggira per le montagne balcaniche, gli eserciti di tutta la regione – croati, ungheresi, valacchi, albanesi, rumeni e serbi – uniscono le loro forze. Alla vigilia della battaglia, un possente eroe serbo, denunciato a un banchetto regale, cavalca attraverso la pianura e giura fedeltà al sultano ottomano; poi, non appena ha conquistato la fiducia del sultano, lo pugnala al ventre. Sa di non poter sopravvivere all’assassinio, ma si sacrifica per il suo re, la sua nazione e la sua stessa reputazione eroica.

Questa narrazione epica è stata tramandata dai guslar, i bardi locali che hanno trasfigurato i loro personaggi semi-fittizi in eroi dalla durevole popolarità, trasformando l’evento storico nel dna culturale di una nazione. Molti dei clienti abituali del vecchio bar di Karadžić adoravano gli eroi di questo Ciclo, così come adoravano Karadžić, l’uomo che aveva cantato queste storie mentre Sarajevo veniva bombardata per suo ordine, l’uomo che aveva sfidato la Nato quando questa stava bersagliando Belgrado. Sottolinearono che Karadžić, come l’eroe della narrazione, si era camuffato per aggirare i suoi nemici – annodandosi i capelli in cima alla testa, facendosi crescere una lunga barba e presentandosi come un santone-guaritore – nel periodo in cui suonava la gusla proprio in quel bar. Parlavano di queste narrazioni come se si trattasse di esseri viventi, e con lo stesso trasporto con cui parlavano delle costanti inimicizie che i racconti avevano contribuito ad alimentare.

Nel XIX secolo, quando il filologo serbo Vuk Karadžić compilò il Ciclo del Kosovo, molte delle fonti a cui attinse erano quegli stessi uomini in carne e ossa che combattevano per l’indipendenza della Serbia dall’impero ottomano: uomini come il fuorilegge Tešan Podrugović, che un momento assaliva un posto di guardia turco e quello dopo cantava fascinose ballate su un principe avventuriero. Qualche decennio più tardi, l’assassino Gavrilo Princip e gli altri militanti del gruppo Giovane Bosnia si ispirarono a queste storie quando nel 1914 complottarono per uccidere l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Nella giacca di uno degli aspiranti assassini furono trovate delle poesie del Ciclo del Kosovo, e Princip scribacchiò versi in metro eroico sulle pareti della sua cella.

 A distanza di vari decenni, in occasione del 600° anniversario della battaglia, il presidente serbo Slobodan Milošević si richiamò a queste narrazioni e fece affiggere sugli autobus pubblici dei manifesti con la sua faccia stampata accanto a quella del re Lazar, il condottiero dell’epica battaglia, mentre il suo collega guerrafondaio Karadžić gettava benzina sul fuoco in Bosnia e cantava le gesta di quegli stessi eroi.

Impronte degli uomini

Ah, se solo potessimo in tutta onestà definire i poemi epici come narrazioni pure, non contaminate da problematici eventi storici, immacolate come le ninne nanne che cantiamo ai neonati! Ma queste narrazioni recano le impronte degli uomini che le tramandano, il che significa che sono macchiate dai nostri pregiudizi, dalle nostre ossessioni, dalla nostra crudeltà, dalla nostra codardia. Significa che portano inscritte dentro di sé le tracce del nostro amore, dei nostri atti di gentilezza, del nostro coraggio.

Come nell’epica balcanica, un’ombra aleggia sulla grande epopea tedesca, il Nibelungenlied. Che racconto magico! Il drago sputafuoco, il mantello dell’invisibilità, il magnifico tesoro custodito dai nani, le battaglie ferocemente emozionanti in cui i cavalieri vengono assaliti da frecce infuocate e bevono il sangue dei loro compagni caduti per mantenersi idratati… Il Nibelungenlied ha avuto alcuni estimatori di alto profilo: soprattutto negli anni Trenta, quando ci misero le mani sopra i nazisti. Heinrich Himmler lo citò in un famigerato discorso dopo la Notte dei lunghi coltelli, Goebbels battezzò con quel nome la sua casa editrice, Göring lo usò per radunare la Sesta armata tedesca a Stalingrado, Hitler lo citò nel Mein Kampf e il regime ne commissionò numerosi adattamenti. Può una storia sopravvivere a un tale sfruttamento?

Oggi, nuovi scrittori e artisti stanno correggendo i vecchi pregiudizi e reinterpretando il Nibelungenlied come un monito della storia, una parabola sui limiti della cavalleria medievale e sulla carneficina che consegue al fallimento della diplomazia. Ho intervistato una drammaturga che l’aveva trasformato in un’opera proto-femminista e un altro, acclamato drammaturgo – Albert Ostermaier – che l’aveva reimmaginato come una denuncia pacifista del colonialismo. Secondo Ostermaier il Nibelungenlied è uno specchio che «riflette la follia della guerra, un vero e proprio atto di accusa contro la guerra, nel senso più nobile del termine… Ma parecchia gente l’ha frainteso e se ne è servita per i propri fini». Personalmente ho il sospetto che le originarie intenzioni del poeta fossero ambigue: è difficile ignorare la travolgente vitalità con cui descrive le battaglie, il brivido del sangue versato e della vendetta compiuta; ma il poeta non è meno eloquente quando entra in scena l’amaro pungiglione del lutto.

Nel trattare la brutalità del loro mondo, queste narrazioni epiche – plasmate in tempi di violenza e terrore spirituale – spesso si dimostrano più mature dei moderni pastiche fantasy e dei blockbuster hollywoodiani. È vero, non possono competere con la spettacolarità visiva del drago sputafuoco realizzato in computer-grafica e con il turbinio di spade roteanti e schizzi di sangue eserciti che oggi riempiono i nostri schermi; ma leggendo i poemi epici emergono anche – intrecciati a doppio filo con i combattimenti – le paure spirituali, i dilemmi filosofici. I poeti antichi e medievali temevano ciò che sarebbe successo loro nel mondo dell’aldilà, e questa paura affiora nelle loro narrazioni. Ma se da un lato i valori che incarnano possono essere interpretati in tanti modi diversi, dall’altro coprono uno spettro enorme. Spesso ci imbattiamo in credenze discordanti all’interno della stessa narrazione.

Dal Beowulf all’Odissea

Prendiamo il caso del Beowulf, il massimo esempio di letteratura anglosassone che sia giunto fino a noi, nonché il primo capolavoro nella mia lingua madre, l’inglese. Un eroe pagano, che crede negli antichi dèi nordici, viene in aiuto a un re, amico di suo padre. Questo re sta perdendo i suoi uomini a causa di un mostro che infesta le paludi intorno alla sua sala dell’idromele. Così Beowulf gli promette che eliminerà la bestia. La narrazione risale ai cristiani dell’Inghilterra del X secolo, e una struttura cristiana si innesta sulla storia di un eroe precristiano.

In linea con questa caratteristica, l’eroe eponimo abita un mondo in cui si superano coraggiosamente le barriere culturali: affrontato all’inizio del racconto da una guardia di confine, Beowulf promette di essere venuto a cercare il suo signore «con animo leale». Un membro dei geati – popolo originario dell’odierna Svezia – che aiuta un re danese in un racconto versificato in Inghilterra: a livello tanto narrativo quanto compositivo il Beowulf dispiega una matrice di intricata interconnessione. E suona come un avvertimento su quel che accade se le connessioni si interrompono.

Nella sezione conclusiva del poema, Beowulf viene ferito mortalmente dal fuoco del drago, e il suo parente Wiglaf preannuncia un’imminente tempesta. Potrebbe essere la fine di una pace che dura da cinquant’anni e delle alleanze tenute assieme grazie all’eroe dal cuore forte.

Negli ultimi anni, leggendo questa storia a volte mi è sembrato che il poeta del Beowulf stesse sussurrando lungo un arco storico millenario. Mentre nel Regno Unito stavamo ingaggiando un corpo a corpo con l’alleanza politica che ci univa al continente europeo, eccomi lì alle prese con un racconto di ascendenza europea sull’importanza delle alleanze politiche. Come il funereo Wiglaf dichiara in chiusura di poema: «Aspettiamoci ora periodi difficili». Echi che si propagano nel tempo, aiutandoci ad acquisire una prospettiva sui nostri problemi attuali, offrendo consigli dal passato. Ponti di connessione che aiutano a forgiare identità comuni. Cerchi di gesso magici, all’interno dei quali le persone possono sentirsi invulnerabili. Grida d’adunata da innalzare contro il nemico. I poemi epici sono quanto mai versatili. E come dicevo, vengono reinterpretati di continuo.

Durante un laboratorio tenuto in una scuola per rifugiati sull’isola greca di Chio, raccontai alcune delle avventure dell’Odissea. Un’adolescente afghana si girò verso di me e disse: «Sembra il mio viaggio». Come Odisseo, aveva vissuto il dramma di una difficile traversata in mare, nel corso del tragitto aveva perso dei compagni, nelle isole dov’era sbarcata aveva incontrato ostilità e nella sua ricerca di una casa in cui mettere radici si era trovata ridotta allo status di “nessuno”: il nome che Odisseo dà al ciclope Polifemo.

La risposta della ragazza è un antidoto allo sciovinismo talvolta associato ai poemi epici: ci ricorda che nella loro espressione più autentica sono ponti così robusti da poter sopportare il peso dell’intero genere umano. Ma non dimentichiamoci l’analogia animale: vivono, respirano, si evolvono. Purché li trattiamo con cura, mantenendoli sani, dovremmo riuscire a goderne per molte altre generazioni ancora, evitando che ci mordano e ci facciano male.

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