A dieci anni da Girls, la migliore di tutte torna con una serie su Netflix, Too Much. Di nuovo la sua vita si mescola al racconto generazionale, ma è soprattutto il primo esempio da anni di una commedia romantica perfetta
Lena Dunham è tornata, e se questa informazione non vi suscita alcuna emozione è perché siete troppo vecchi o troppo giovani per aver visto Girls e aver pensato che fosse la cosa migliore mai realizzata in televisione. Per queste due categorie di persone: Girls è una serie Hbo andata in onda tra il 2012 e il 2017 che meglio di qualsiasi altro prodotto ha raccontato gli insopportabili millennial (eccomi qui) e i loro vent’anni a New York nello scorso decennio.
Niente più Manhattan, ma appartamenti modesti a Brooklyn (là dove Miranda Hobbes di Sex and the City non voleva nemmeno trasferirsi in una brownstone col camino); niente più grandi amori, ma tanti piccoli amori così così; malattie mentali, sogni ridicoli, genitori patetici, amicizie sfinite.
Tutto in Girls sembrava vero, così vero che il personaggio di Dunham (che scriveva, dirigeva e recitava nella serie), un’aspirante scrittrice che nell’arco di sei stagioni cerca di imparare a stare al mondo e di realizzarsi più come persona che come artista, poteva sembrare una proiezione di sé, un alter ego televisivo che prendeva a manciate dalla propria vita di giovane donna cresciuta a New York e la inseriva nel classico impianto narrativo del quartetto di donne, dove ognuna rappresenta un tipo.
La precisetta, l’egomaniaca, lo spirito libero, l’ingenua. Essendo io incapace di scrivere qualsiasi cosa che non provenga da un dato autobiografico, lasciate che vi dica che così è troppo facile e Lena Dunham non sarebbe una delle persone più talentuose della sua generazione se la sua fonte principale fossero semplicemente i cazzi suoi.
Infatti non lo sono: Dunham è sì cresciuta a New York, ma in una famiglia di artisti di successo. Non le appartenevano i problemi economici di Hannah (il suo personaggio in Girls), né i genitori professori dell’Ohio, né le velleità creative inespresse: Dunham ha 26 anni quando la prima stagione di Girls va in onda rendendola una delle autrici più giovani e affermate in circolazione (spesso viene opportunamente scomodato il termine “genio”).
Sono suoi invece i disturbi ossessivo-compulsivi, i tatuaggi, la formazione all’Oberlin College. Qui sta la sua bravura, in questa capacità di mescolare il vissuto con la simulazione, il pop e la letteratura (è Il gruppo di Mary McCarthy ad avere ispirato Girls, un romanzo splendido di cui non parliamo abbastanza), lo spirito del tempo con il proprio ombelico.
Troppo
Ora l’ha fatto di nuovo. Dopo anni di quasi inattività – alcuni film e collaborazioni che non si è filato nessuno – è uscita Too Much su Netflix, serie in dieci episodi che racconta di Jessica, trenta-e-qualcosenne di New York che dopo la fine di una relazione durata sette anni si trasferisce a Londra per cercare una nuova vita e si innamora di nuovo, la prima sera in città.
Si innamora di un musicista mezzo giapponese, proprio come Dunham che qualche anno fa, dopo essersi trasferita a Londra, si è innamorata di un musicista mezzo peruviano e infine se l’è sposato. Di nuovo la sua vita si mescola al racconto generazionale, facendoci quasi dimenticare che quando Dunham ha cambiato paese era probabilmente milionaria, mentre Jessica subaffitta un appartamento in un condominio popolare di mattoni intrisi di pioggia, attratta dall’annuncio che recita “estate”, “tenuta”, e immaginandosi probabilmente un altro scenario, più vicino alla sua idea di Inghilterra.
Jessica è cresciuta amando i film in costume, Hugh Grant e la campagna inglese, e con la nonna (Rhea Perlman), la madre (Rita Wilson), e la sorella (Lena Dunham), passa i suoi sabati sera a discutere della scopabilità di Alan Rickman, mentre l’ex fidanzato ha rapidamente ritrovato il buonumore fidanzandosi con una influencer bona (Emily Ratajkowski) che diventa destinataria immaginaria degli sbrocchi di Jessica, che è abituata a sentirsi “too much”, troppo. Troppo esuberante, troppo sensibile, troppo sincera, troppo tutto.
La migliore
È così che Dunham arriva a salvare un genere e ci regala la prima commedia romantica degna di questo nome dopo anni di miseri tentativi (del tracollo del genere mi ero già lamentata su queste pagine). Due protagonisti amabili e complicati, un colpo di fulmine, dialoghi perfetti.
In Too Much c’è tutto quello che serve e anche qualcosa in più (come dice Felix a Jessica: «You’re just enough and a little bit more»). In particolare c’è tutto ciò che il Regno Unito ha di meglio da offrire, nello specifico Richard E. Grant (che anche in Girls compariva sempre al momento giusto) e Andrew Scott nei panni di un regista così antipatico che fa simpatia. Niente è fuori posto, si piange e si ride, e chi ha pensato che Dunham fosse bollita avrà modo di ricredersi. Per una volta i sette euro e novantanove che diamo a Netflix ogni mese sono spesi bene.
Certo, Too Much non cambierà la storia della televisione come ha fatto Girls, destinata invece a restare sullo scaffale degli imprescindibili vicino a Mad Men e I Soprano (se non l’avete mai guardata e non volete infilarvi nell’impresa, vi supplico di andare almeno al terzo episodio della sesta stagione. È su Sky, ed è uno dei più intelligenti editoriali sul Me Too che si potessero fare), ma si riconosce la mano della più brava di tutte. Avevamo aspettato abbastanza. Troppo.
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