Roberto Gervaso a Giuseppe Berto: Chi è il migliore tra i critici italiani?
Berto: Citati.
(R. Gervaso, Il dito nell’occhio, Rusconi, Milano 1977, p. 47)


C’è stata un’epoca – non troppo lontana, neanche cinquant’anni fa – in cui i giornalisti intervistavano gli scrittori e gli scrittori parlavano dei critici, e quando nominavano quello che per loro era il più bravo non c’era neanche bisogno di dire il nome di battesimo: tutti – anche chi non leggeva la terza pagina (allora, prima che arrivasse il paginone centrale di Repubblica, la pagina della cultura su tutti i quotidiani – sapevano benissimo chi era Pietro Citati.

Citati è morto ieri, dopo aver attraversato il Novecento e questo pezzo di Ventunesimo secolo facendo sempre la stessa cosa, e cioè parlando di letteratura, anzi di Letteratura con la maiuscola perché – come dice affettuosamente Carlo Fruttero nell’articolo che ripubblichiamo qui di séguito – Citati non era interessato alle minuzie della storia letteraria, agli autori minori che ne formano il tessuto, alle correnti letterarie, agli -ismi che affollano le pagine dei manuali. A lui premevano solo i grandi scrittori, che negli anni ha affrontato con piglio di critico “puro”, senza le cautele ma anche senza i grigiori degli accademici, e i loro ingorghi bibliografici: Tolstòj, Kafka, Goethe, Proust, la Bibbia, ogni tre o quattro anni Citati sceglieva un Grande Autore, leggeva tutto quello che aveva scritto, leggeva una scelta della critica su di lui, e poi gli dedicava un libro. Libro che – oggi sembra incredibile – vendeva decine di migliaia di copie, e veniva letto, e faceva discutere, e guadagnava al Grande Autore nuovi lettori.

Come suona il vecchio adagio, Citati era entrato nella letteratura come si entra nella religione: la stessa serietà, la stessa fede, la stessa composta solennità – tutte qualità che oggi, rispetto al passato (rispetto al gusto di Giuseppe Berto, poniamo, e di tanti altri nati e morti nel Novecento), siamo un po’ meno propensi ad apprezzare. Ma era un lettore onnisciente, un vero divulgatore (un divulgatore alto, si direbbe oggi: ma come alto dev’essere, ed è ormai raramente, il tono con cui l’esperto parla all’inesperto), e una figura cruciale nella pubblicistica culturale del secondo Novecento italiano. E anche più di questo: soprattutto prima che i giornali ne assorbissero l’attenzione e l’impegno, il giovane Citati aveva scritto saggi di grande valore anche scientifico, ancor oggi leggibili con profitto: come quello – ecco una lettura estiva davvero originale – che introduce la raccolta di Leo Spitzer intitolata Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna: uscì per Einaudi nel 1959, Citati non aveva ancora trent’anni, era proprio un altro mondo.
(Beppe Cottafavi)


Tanto vale togliersi subito il pensiero: Pietro Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l’unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esi­stono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tol­stoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile. Gli esclusi lo vorrebbero morto, uno così. Come si permette, chi si crede di essere?

Li capisco benissimo, sia chiaro. Di Citati mi considero oggi un caro amico, ma anche con me, dopo tan­ti anni, se gli viene in mano il coltello a serramanico non esita a far scattare la lama. Mai alle spalle, però, sempre faccia a faccia, che è forse anche più insultan­te. Il critico, il letterato, può dunque apparire e maga­ri saltuariamente essere odioso; ma l’uomo non è cat­tivo, tutt’altro.

Io lo conobbi nel 1958 o 1959 in casa editrice Einaudi, dov’era passato a salutare i suoi compagni di scuola (Normale di Pisa) Ponchiroli e Bollati. Passò anche a salutare Calvino, che ammirava e di cui era amico, ma Italo aveva appena lasciato l’ufficio e Citati restò lì al mio tavolo qualche minuto a parlare di fantascienza, le antologie da me curate essendogli molto piaciute. Gentile, sembrava.

Sotto il mio capanno

Molti anni dopo Gianni Merlini e io, stufi della troppo umida Versilia, cercavamo casa più a sud, in Ma­remma, e Citati, grande amico di Gianni, ci ospitò per due o tre notti a casa sua.

La sua casa era una vera e propria tenuta, con un prato ampissimo, immensi alberi ombrosi, viali infila­ti sotto fitti rami e cespugli, una cappelletta tra gli uli­vi, filari di alberi da frutta. L’edificio, benché costruito negli anni Trenta, restava felicemente fedele a canoni di sobria rusticità toscana.

Niente civetterie anticheg­gianti, solida, comoda naturalezza in quei terrazzi, log­gette, salette e saloni e alti finestroni. La Castellaccia, si chiamava la frazione, dotata di una botteguccia di alimentari e attorno un minuscolo borgo. Citati s’era scelto come studio una cameretta a pianterreno e lì s’in­stallava a scrivere accanitamente dal primo mattino. Poi, quasi ogni giorno, prendeva la macchina e faceva quei venti chilometri fino alla spiaggia della mia pine­ta. Si cambiava, si sedeva sotto il mio capanno di cannucce e si metteva a leggere il giornale.

Per me andava benissimo così, perché con un apodittico cronico la conversazione è sempre piuttosto asimmetrica. Se accenni a un libro che hai cominciato a leggere ieri sera, o a un film che hai appena visto in tv, l’apodittico nove volte su dieci già lo conosce da anni, l’ha già soppesato, valutato, sistemato nel suo archivio mentale e te lo liquida in quattro parole. Se invece capita che non ne sappia niente lo liquida in parole due, come irrilevante. Finché non c’è arrivato lui, alla caduta di Costanti­nopoli, non è il caso di parlarne.

Parlare ai bambini

Una bella sicurezza, da me molto invidiata. Non voglio dire che la mia indole tenda particolarmente all’amletismo, ma di dubbi ne ho sempre, come tutti, tantissimi, sui cardi delle perplessità mi ci spello i piedi quasi ogni giorno, quasi ogni decisione infine presa mi sembra, a rifletterci, sbagliata. Non così Citati, sereno, sorridente, ben piantato nella sua infallibilità: quella Citroën, di quel colore, di quella cilindrata, è l’unica giusta; quella pasticceria di Gavorrano è l’unica che sa fare i salatini; quel certo albergo in Cadore è l’unico dove si sta veramente bene.

Se solo accenni a un buon albergo in Val d’Aosta dove anche tu una volta... Citati taglia corto con una smorfia. Quale Val d’Aosta? La Val d’Aosta non esiste, è cancellata dalla carta geografica. Ipse dixit. Si può sospettare che sia tutta una difesa per tenere lontano Amleto e i suoi tormenti, ma non credo. Citati è convintissimo di quello che dice, sceglie, fa, la sua stessa voce s’impone con tonalità sbrigative, definitive nel fatale labirinto dei sentieri che si biforcano.

È possibile diventare e restare amici di un personaggio così rostrato? Sì, per una ragione ai miei occhi decisiva: Citati è uno dei rarissimi uomini che sanno parlare ai bambini. Un dono divino, se vogliamo, come san Francesco che sapeva parlare agli animali. Abbiamo ormai la certezza scientifica, o metafisica, che i bambini vengono strappati urlanti da un misterioso mondo extraterrestre e che poi qui da noi si adattano piano piano al nostro.

Per alcuni anni, però, conservano del loro luogo d’origine un sistema logico di strabiliante mutevolezza, dove tutto, assolutamente tutto, si può innestare su tutto, tramutarsi nel suo opposto, trapassare inconcepibili dimensioni, far esplodere o miniaturizzare ogni ordine di grandezza, di probabilità, ogni convergenza euclidea o divergenza non euclidea.

Inestimabile valore

Come parlano questi piccoli alieni? Be’, più o meno come noi, apparentemente. Ma ricordano d’istinto la lingua delle mummie, per esempio. Sepolti (meno il volto) in tre tumuli sabbiosi, l’egittologo Citati si china su di loro e gli rivolge cavernose parole. Le mummie rispondono, altrettanto cavernose.

Dopo una lunga criptica conversazione l’egittologo si trasforma in promotore di Formula 1, afferra per i piedi una ex mummia e le fa tracciare col fondoschiena un circuito da brividi, tutto curve e controcurve, un solo rettilineo, e piazza in fila di partenza le grosse biglie iridescenti da lui stesso messe a punto in una sua officina. Ed eccolo giudice di gara, a dirimere delicatissime questioni di fair play, a chiudere un occhio con chi bara (tutti), a rimettere in pista chi ne sembrava uscito definitivamente per la terza volta, a decidere chi abbia in realtà vinto (tutti).

«Ma questa è di inestimabile valore?» gli chiede un bambino mostrandogli una conchiglietta poco più rosa del suo palmo aperto. Senza dubbio, risponde ammirato il massimo diamantologo di Anversa dopo averla scrutata a lungo col suo occhialino fatto con due dita. È proprio di inestimabile valore.

Il cliché, che ha una sua nobile carriera fiabesca, deve essere rispettato. E rispettate (con delizia) saranno tutte le deformazioni di parole praticate dai bambini, soltanto un orecchio ottuso correggerà il rogiologio in orologio, il lusignono in usignolo.

Posso ben dire che quelle feste di bambini (e di grandi) alla Castellaccia erano d’inestimabile valore. C’erano zuppe e torte con e senza panna, intingoli e prelibatezze maremmane, fritti e creme e involtini e salsine sparsi su lunghi tavoli ai bordi del prato: il classico «ognibendidio» sempre presente in Pinocchio e in tante dimore fantastiche.

Douceur de vivre

Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre. Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la nona pecora, l’arrotino laggiù, la Stella un po’ più in basso, e così via fino alla perfezione.

La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, sgocciolante di sciroppi e bave al cioccolato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell’urlìo continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.

A cena al Quirinale

Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un il­lustre e potente personaggio dell’establishment cultu­rale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. Ma non l’ho mai visto all’ope­ra con banchieri o ministri o luminari di questo o quel ramo. So che s’era preso di grande affetto per Federico Fellini, che girava degli spot pubblicitari per sopravvi­vere e lo invitava ad assistere alle riprese.

Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d’altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smo­king. Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale.

Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po’ sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A pa­lazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l’ela­stico, che su una bella camicia bianca... Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.

Strisce orizzontali

Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, supe­riore alle pompe del mondo? Chissà (c’era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega…). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo.

Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti).

Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati.

Se faceva di testa sua, o piuttosto se si lasciava plagiare da amici sconsiderati, poteva succedere che si presen­tasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimi­li. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzon­tali verdi e beige, terribile.

«Ma sei impazzito?» prote­stavo io. Su queste cosette esteriori si lasciava dire, sor­rideva indulgente, filosofico. «Be’, che c’è di male, l’ho trovata su una bancarella a Arcidosso»,

«Ma non si può, sembri un centrocampista del Celtic Glasgow!». Citati si rimirava la maglia senza vergogna. «Mi hanno detto che è filo di Scozia, bello fresco» si difendeva bonario.

«Sono Pietro Citati»

Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po’ di quel festival.

Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti. Mai una “prima” fastosissima, attesa da anni, mai un vernissage, un’inaugurazione, una celebrazione squillante. Non m’invitavano, per lo più; oppure ero in un altro posto; o mi spaventava la ressa; e nemmeno io avevo uno smoking, del resto.

Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi ap­passionati, gli “scopritori”, già avevano smesso di an­darci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D’altra parte il pubbli­co doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell’influenza aviaria.

«E se non troviamo da dormire?» dicevo io.

Da auten­tico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spo­leto non c’era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita. Lui sparì, taciturno e grintoso, e quan­do tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annun­ciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di sa­lita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarce­ne a dormire dopo lo spettacolo.

«Quale spettacolo?», 

«Così fan tutte, nel famoso teatri­no del festival. E anzi, alzatevi e andiamo»,

«Ma i bi­glietti?».

Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell’ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria.

«Sono Pietro Citati» disse duro alla ragaz­za. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiaris­simo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi al pernacchia.

Avere ragione

Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le se­die.

Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le ac­cecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. En­trammo in non so quante case (compresa quella di Me­notti, beninteso), attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo).

Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per il mio libro Ti trovo un po’ pallida. Il giorno della partenza andammo a se­derci nel grande caffè sulla piazza che digrada appe­na verso il Duomo. File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolce­mente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate.

«È bello» dissi a Citati, «avevi ragione.»

«Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero.


da Le mutandine di Chiffon, di Carlo Fruttero, © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A e © 2020 Mondadori Libri S.p.A. Per gentile concessione degli eredi e dell'editore

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