Il papa proclama santi due giovani, Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, figure entrambe popolarissime. Oggi il ragazzo che ha attirato l’attenzione anche dei media laici, un secolo fa il figlio del fondatore della Stampa celebrato persino da Filippo Turati, come nel 1928 aveva osservato Montini riprendendo una frase dell’esponente socialista: «Era veramente un uomo Pier Giorgio Frassati».

Secondo l’opinione prevalente tra i teologi la canonizzazione impegna l’infallibilità papale, come concludeva Benedetto XIV ricorrendo in pieno illuminismo anche a un criterio storico, perché nel dichiarare un santo mai error inventus est, cioè mai «si è trovato un errore» nei pontefici.

La conclusione di Lambertini s’inserisce in un lunghissimo processo di crescita del primato romano, avviato in età antica e che culmina nel 1870 con la proclamazione, da parte del concilio Vaticano I, dell’infallibilità papale, peraltro circoscritta.

Bilanciato dall’insistenza sulla collegialità episcopale durante il Vaticano II concluso nel 1965, l’esercizio del primato è stato portato da papa Bergoglio a un’assolutizzazione autocratica che Leone XIV ha iniziato a stemperare. Come si è capito da quanto ha detto Prevost già poche ore dopo la sua elezione parlando di un «impegno irrinunciabile per chiunque nella chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo», e poi dagli interventi (E pace sia!, Libreria editrice vaticana) nei primi mesi di pontificato.

Il «profeta del passato»

Nella crescita del ruolo papale hanno giocato un ruolo decisivo le vicende storiche: all’inizio dell’età moderna soprattutto il trauma della rivoluzione francese, suscitando nel contesto della restaurazione – un tentativo impossibile – reazioni molteplici. Come nel 1802 l’appassionata visione del Genio del cristianesimo (Einaudi) di Chateaubriand e, in modo diverso, quella del savoiardo Joseph de Maistre, che pubblica nel 1819 un’opera subito molto diffusa, e altrettanto controversa, ora riedita (Il Papa, Luni Editrice). «Un buon libro non è quello che convince tutti, altrimenti non ci sarebbero buoni libri» premette con orgogliosa arguzia l’autore, ben consapevole di andare controcorrente.

Definito dai contemporanei «profeta del passato», de Maistre nasce nel 1753 a Chambéry da una famiglia aristocratica ed entra ventunenne in una loggia massonica. Colto e poliglotta, è convinto della possibilità di unificare le chiese cristiane grazie alla massoneria e all’esoterismo. La svolta nella sua vita arriva dopo lo sconvolgimento della rivoluzione. Che «non assomiglia a niente di quanto si è visto in passato» scrive, arrivando a definirla «satanica nella sua essenza».

Quando i francesi invadono la Savoia, l’esule si rifugia a Torino, poi a Venezia e infine in Sardegna. Al servizio della monarchia sabauda, dal 1803 è inviato da Vittorio Emanuele I come ambasciatore alla corte dello zar e vi rimane un quindicennio, concluso a causa della sua sfortunata campagna a favore dei gesuiti.

Al rientro in Piemonte il conte è ormai deluso dall’insuccesso della restaurazione, sia in Francia che in altri paesi, e si dedica, fino alla morte nel 1821, alle sue opere, tra le quali appunto Du Pape. Nella prima traduzione italiana uscita già l’anno seguente, il teologo e biblista curiale Giovanni Marchetti gli rimprovera «d’aver troppo umanizzata appoggiandola a considerazioni puramente filosofiche questa prerogativa dell’infallibilità, che nel supremo potere del Papa è divina».

La critica del prelato polemista è motivata dall’impostazione storica piuttosto che dottrinale dell’opera, certo apologetica e reazionaria, ma che ha l’effetto di traghettare il tema dell’infallibilità dall’ambito dei teologi ai laici. Ettore Passerin considererà de Maistre un «modesto ecclesiologo», riconoscendogli comunque un ruolo nel preparare «il risveglio cattolico, dal primo Lamennais al Newman», entrambi però di tendenze ben diverse.

Il ruolo del papato 

In una lettera del 1814, poco dopo la prima abdicazione di Napoleone e l’avvento sul trono francese di Luigi XVIII, de Maistre aveva scritto che «il cristianesimo si fonda completamente sul papa» e aggiunge che «non c’è morale pubblica né carattere nazionale senza religione, non c’è religione europea senza il cristianesimo, non c’è cristianesimo senza cattolicesimo, non c’è cattolicesimo senza il papa, non c’è papa senza la sovranità che gli spetta». Sovranità che era stata cancellata con la soppressione del potere temporale pontificio, dichiarata due volte in poco più di un decennio: dalla rivoluzione nel 1798 e da Napoleone nel 1809.

Compilativo ma scritto con brio e appoggiato su una vasta documentazione storica, Il Papa riafferma in ogni pagina il principio di autorità. Ed estende addirittura ai poteri laici un’impossibile infallibilità: «Quest’ultimo privilegio è così assolutamente necessario che siamo costretti a supporre l’infallibilità anche nelle sovranità temporali (nelle quali non esiste), sotto pena di veder dissolversi l’ordine sociale».

Il libro di de Maistre sul papa arriva a influenzare il concilio Vaticano, convocato nel 1869 da Pio IX. Anche se nei dibattiti risuonano voci diverse, come quella di Wilhelm Emmanuel von Ketteler, vescovo di Magonza e autorevole esponente della minoranza contraria all’infallibilità. Questi ammette l’importanza dell’autorità ma sottolinea la «ripugnanza per ogni forma di assolutismo, dal quale tanti mali sono derivati all’umanità: poiché l’assolutismo corrompe e umilia l’uomo». E proprio una dichiarazione dei vescovi tedeschi restringerà nel 1875 la portata del dogma dell’infallibilità, con l’approvazione dello stesso pontefice.

Divisivo 

Una figura come de Maistre ha sempre diviso. «Impeccabile» secondo Baudelaire che lo ammirava, irrita invece Norberto Bobbio al punto da fargli scaraventare a terra la tesi, diretta da Luigi Firpo, e dedicata da Alfredo Cattabiani all’autore francese. Più pacato Carlo Bo, che avverte di non cercare nel libro sul papa «l’immagine cristiana» del pontefice «ma soltanto l’idea che il grande scrittore si faceva dell’ordine e della stabilità del mondo».

Nel 1829 ben diverso è quello che prova Chateaubriand (Memorie d’oltretomba, Einaudi) dopo una celebrazione della settimana santa in Sistina: «I cardinali erano in ginocchio, il nuovo papa prosternato davanti allo stesso altare dove qualche giorno prima avevo visto il suo predecessore; la mirabile preghiera di penitenza e di misericordia, che seguiva le Lamentazioni del profeta, si innalzava di tanto in tanto nel silenzio e nella notte. Ci si sentiva schiacciati dal grande mistero di un Dio che muore per cancellare le colpe degli uomini. L’erede cattolica sui suoi sette colli era presente con tutti i suoi ricordi; ma al posto di quei pontefici potenti, di quei cardinali che disputavano la precedenza ai monarchi, un povero vecchio papa paralitico, senza famiglia e senza sostegno, dei principi della chiesa dall’aspetto dimesso annunciavano la fine di una potenza che aveva civilizzato il mondo moderno».

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