Riproposto nella Universale Economica di Feltrinelli a cent’anni dalla nascita di Luce d’Eramo, Io sono un’aliena, frutto della conversazione tra l’autrice e Paola Gaglianone, vibra ancora più forte, come per una risonanza che supera i confini del tempo e si estende verso il futuro
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
Uscito nel 1999, Io sono un’aliena è una lunga riflessione in cui Luce d’Eramo rievoca le tappe del suo insolito, scomodo percorso esistenziale e intellettuale. Il filo dei pensieri s’intreccia con le esperienze di vita e di lavoro, dall’infanzia nella Francia del Fronte popolare ai terribili anni della guerra, alla passione per la fantascienza, in un affascinante viaggio dentro i procedimenti di scrittura di una donna veramente “aliena”.
In pagine di scarna intensità emotiva, d’Eramo ci apre le porte delle sue convinzioni e del suo sforzo incessante di abbracciare la diversità nel mondo, di riconoscere l’alieno dentro e fuori di noi, di farla finita con l’antropocentrismo su questo piccolo pianeta “solo soletto” ai margini della galassia. Oggi, a cento anni dalla nascita di questa esploratrice dell’Altro, il suo messaggio smuove nel profondo i lettori con un sorriso impunito che viene da un passato drammatico e si apre a un domani impensato.
Beppe Cottafavi
Questo è un paese che dimentica i suoi scrittori, li scolora, li ributta indietro. Però, nonostante l’abbandono, da qualche parte Luce d’Eramo continua ad avanzare. La scrittura è movimento, e nessuno come lei ha espresso questo movimento che ha sempre contenuto il futuro. La sua immagine mi torna davanti con l’impeto di un lampo. Luce. Quel nome al quale lei nella vita preferiva il suo Lucetta, perché le sembrava troppo imperioso, o, come dice scherzosamente Marco, più adatto a celare un’attrice.
Per gli scrittori i nomi sono importanti, sono il primo cappotto che buttano addosso a sagome ancora invisibili. Così il suo nome per me è importante, si muove, brilla, si spegne, si riaccende. La ricordo, gracile, rinsaccata in una giacca sbilenca, eppure bastava che alzasse gli occhi. Emanava quella speciale luce delle forze che sono rimaste lungamente al buio, una sorta di fosforescenza residua. Perché la vera luce illumina gli angoli dismessi, ostili, le retrovie dove lei ha vagato, deviando sempre, moltiplicando il bagliore delle creature minori, abbandonate all’addiaccio dal grande flusso della storia e della cultura corrente, dal diktat dei regimi intellettuali contro i quali Lucetta ha sempre lottato, dall’alto della sua carrozzella.
Scrivere di lei riapre il buco, il pensiero di poterla andare a trovare, di passare qualche formidabile ora in compagnia, tra i suoi gatti, la sua voce ancora un po’ francese, piena di zoppie, di scarti improvvisi, di sussurri e vigori, come la sua scrittura, asciutta e discreta.
L’ho conosciuta molti anni fa, partecipammo insieme a un premio Strega. Avevo letto Deviazione, ero rimasta impietrita. Dalla sua storia, dal modo con cui aveva scritto quella storia, deviando sempre da ogni strada segnata, tornando sugli eventi in tempi diversi, non fidandosi neanche della propria memoria. Senza invocare alcuna resurrezione. Lottando contro il suo stesso inconscio.
Nessuno sconto, nessun rimaneggiamento postumo. Correndo il rischio fino in fondo. Il coraggio della donna era indubbio, quello dello scrittore sterminato. Ricordo la prima volta che intercettai la sua presenza ustionante. Se ne stava là nel suo scranno a rotelle, discreta, relegata in un angolo nel bordello, ma non si perdeva nulla in quella fiera di scrittori esposti alla vanità.
Mi avvicinai, mi chinai, mi prese subito la mano, nessun formalismo, subito affettuosa. Quel visetto inciso, sofferto ma vispo, smagata con chi le stava intorno e la blandiva. Gli occhi, devo soffermarmi sugli occhi. Chiodi luccicanti, infissi nella profondità, affioravano vigili. Occhi liquidi, ma non di lacrime, ma come di benzina, di un liquore infiammabile.
Mi prese la mano, la strinse in quella sua piccola tenaglia ossuta e vibrante. E davvero sembrava una deportata in quel mondo. Era l’anno delle nonne letterarie. Delusi dai genitori, dissero i critici, si tornava a rimpiangere i vecchi. Io ero al mio esordio con Il catino di zinco. Venivo dal teatro, mi godevo la novità di quel mondo letterario al quale ero stata ammessa, ma dal quale temevo di essere estromessa molto in fretta. Lucetta partecipava con Ultima luna. Lo straordinario ritratto della vecchia Alfonsina che mentre muore traghetta il figlio verso l’amore con la gerontologa che l’assiste.
Nonostante la sua notorietà non sembrava meno smarrita di me. Accettava le cure del “service” della casa editrice, una pizzetta, un succo di frutta. Mangiava vorace come un uccellino affamato, come una creatura geniale e stanca portata allo scoperto dopo mesi di solitudine e digiuno, che finalmente si nutre. Il buffet di casa Bellonci era indubbiamente buono. La cosa migliore, mi disse. Mangia, mi disse. Mi consigliò i fritti. Sospettava che fosse tutta una macroscopica fregatura, che fosse stata usata come nome forte, tirata dentro. Fu la prima cosa che mi disse, mi hanno messo in mezzo. Cercò una confidenza vispa, fuori dai denti.
Quella scrittrice celebrata, reduce da una vita incredibile, nonostante il doloroso passato non mostrava nessuna afflizione, nessuna alterità. Se ne stava lì disciplinata, esposta, una regale monella. Mi piazzai vicino a lei e non mi mossi. Dopo poco sembravamo due ragazze di paese sedute su un gradino a guardare la festa del patrono. E Luce fu la vera esperienza di quella maratona letteraria. Parlammo della sua Alfonsina e della mia Antenora. Fu lei che mi concesse di accorciare le distanze.
Mia nonna era ciociara e anche Lucetta era vissuta in Ciociaria al ritorno dalla Francia, anche lei aveva avuto una nonna materna ciociara, conosceva bene quel mondo arcaico, animalesco, dove lei veniva chiamata “la francesina”, dopo che per tutta l’infanzia in Francia era stata additata come straniera. Era semplicemente l’inizio della sua storia di sradicata, di inadatta. Avevo appena avuto un figlio e lei mi parlò di Marco e avvertii subito la membrana di quel rapporto unico. Due persone, una in carrozzella e una piccola, che hanno vissuto una vita difficile, mai banale, ferita ma appassionata, gli amici come Moravia, Morante, Bellezza, Rosselli, Zavattini, e Camilla Cederna che li aiuterà economicamente, i numerosi ricoveri di Lucetta, gli anni dell’indigenza.
Luce che non smette di viaggiare, di stupirsi, e Marco che l’accompagna, spinge quella carrozzella, maledice l’inciviltà italiana dei parcheggi selvaggi, dei marciapiedi senza passaggio. Una vita, la loro, dove l’impronta si mescola all’orma, faccia su faccia, umanità su umanità, un figlio testimone attivo, vigile. Scabro e solitario almeno quanto lei. Immagino cosa dev’essere stato quando, dopo trent’anni di lavoro e tanti rifiuti, finalmente Deviazione viene pubblicato e diventa un caso letterario.
Immagino la loro felicità. Con Marco ogni 27 febbraio, il giorno dell’incidente a Magonza, fanno un brindisi. Un giorno che chiunque altro vorrebbe dimenticare, invece lei no. Quello non è il giorno della paralisi, ma il giorno della vita. Luce non ha mai voluto salvarsi. La sedia a rotelle la condanna già alla posizione fisica, ma soprattutto interiore dello scrivere. Catalogando, inchiodando, spostando, cercherà sempre qualcosa oltre l’ingannevole orizzonte dell’io.
La scrittura è un semplice strumento per dare nome alle cose, una vanga che scava, che separa le zolle. Nessun compiacimento. Nessun riparo. Perché Lucetta è una sbrancata. Una creatura inesauribile. Ho vissuto con un padre scrittore che per quarant’anni ha scritto e riscritto lo stesso libro. Luce aveva letto quel libro, conosceva la storia di mio padre, anche lui nato e cresciuto in una famiglia fascista e partito volontario a diciassette anni, nello sfascio collettivo, verso Salò.
Pur appartenendo a generazioni diverse, io avevo sentito sulle mie spalle il peso di quella parte sbagliata, la sofferenza di un uomo che aveva fatto un percorso solitario di ricostruzione attraverso la scrittura, ma non aveva mai smesso di sentirsi un reietto. E io lo ricordo arrabbiato, avvolto nella scrittura come in un sudario macchiato di un dolore indelebile.
Lucetta, così mite e luminosa, rappresentò per me l’umiltà con la quale la scrittura può squarciare il buio della memoria più indigesta senza lasciarsi ingoiare. Aveva vissuto l’orrore e le umiliazioni più terribili, eppure sembrava aver attraversato il fuoco come una salamandra. Perché Luce era scrittrice di vita. Non guardava indietro, anticipava. Donna scabra, di pensiero, ma donna. Pronta a rinascere ogni giorno, a cercarsi una nuova pelle dove infilare le sue parole sempre in fermento.
Una creatura pratica che nella pratica della vita si è compromessa fino in fondo. Lei era libera. Si era conquistata duramente quella libertà. Intorno, quel cicaleggio roboante e inutile che lei, nonostante l’handicap del parcheggio forzato, guardava con indulgenza. Nulla di amaro, nessuna rivalsa. I suoi occhi si spostavano dardeggiando, ma sempre compromessi dalla bontà, dalla profondissima umanità.
Non aveva la libertà delle gambe che ti permettono di fuggire dagli scocciatori, si lasciava avvicinare e succhiare. Osso di verità, di intelligenza. Passammo altri momenti insieme. Una cena, dopo una di quelle accascianti presentazioni collettive, dove certi scrittori si dilungano e sembra che debbano raccontare tutto ciò che non hanno mai scritto e le parole si moltiplicano in bocca come schiuma di sapone.
Io e Luce parlammo pochissimo. Più tardi ridemmo parecchio. Una trattoria, una tavolata rumorosa. Ci ubriacammo abbastanza. Due baffetti rossi stampati sulla sua bocca. Una creatura crocchiante, dal cuore caldo. Il vero capolavoro era lei. Instancabile, capace di addentrarsi con semplicità e frugalità nel ragionamento più alto, senza mai perdere di vista la condizione umana. Mi disse che da ragazza aveva amato tanto Dickens, che le sarebbe piaciuto scrivere storie così, commoventi e utili. Aveva fatto studi filosofici, parlava del male appostato dietro al bene nella coscienza contemporanea.
Tutto la incuriosiva. Ed era anche molto spiritosa, sforbiciava le idiozie del mondo con la sua vocetta tremolante. È vero, aveva i capelli corti e selvaggi, ma era anche molto femminile, una piccola civetta. Amava i gatti, è noto. Ma lei ricordava molti animali, una capinera, un piccolo fennec. Degli animali aveva la selvatichezza e lo sguardo sudato di spavento, di inadeguatezza. E possedeva l’integrità del cerchio, tutta la sua vita l’avvolgeva, l’indomita ragazza che era stata, la bambina irriverente. Parlava, ed era incredibilmente precisa e sapiente. Poi lasciava sospese le frasi, sembrava in attesa di una conferma, non dagli astanti, ma dal suo stesso pensiero che continuava a muoversi febbrile, a regalarle nuove visioni.
Luce non ha mai avuto un luogo sicuro. Ha seguito il suo destino interiore sempre a repentaglio. Rovesciando l’asse, guardando le cose da una prospettiva mai allineata. Facilmente immagino la sua solitudine. Mi parlò del nuovo incidente, quando venne travolta in aeroporto tornando da Francoforte, di quello non si dava pace, perché aveva compromesso la sua autonomia. Ciclicamente il mondo si sollevava contro di lei. Nuove dolorose operazioni. Ma lei continuava a mettere in atto la sua umile resistenza. Aveva la funambolica capacità interiore di rovesciare questi invalidanti accadimenti, di integrarli, non come interruzioni violente, ma come luoghi di un percorso. Luoghi di scrittura. Un osservatorio privilegiato. Nessun pietismo come nella scrittura.
Mai sale su uno scranno, mai si avvantaggia della sua esperienza dolorosa che pure la pone in alto. Le parole scompaiono nella cosa detta, scompare lo scrittore. Continua a scegliere di non salvarsi. Di condividere fino in fondo il destino degli ultimi. In questo assumersi lo sbaraglio, il cielo scoperto e sporco degli uomini, c’è molta della cristianità, mai dottrinale, tutta interiore di Luce. Il suo ardore narrativo è crepato, messo in discussione dallo scrittore stesso che teme di essere un testimone troppo partecipe.
Si avverte in tutta la letteratura di Luce d’Eramo la costante polifonia di un orecchio non protetto, spalancato a ogni vibrazione, anche la più disprezzabile. Non cerca mai di dominare la materia narrativa, si lascia incendiare ma soprattutto incenerire. Umile, asservita ai suoi personaggi, non si pone mai in un luogo diverso, li assiste, si dibatte con loro, li lascia liberi. Nessun dominio intellettuale, né ideologico. Non a caso, già a diciotto anni parla del diavolo, ascolta le sue ragioni, la sua invidia verso il dio che crea. Anche il diavolo ha il diritto di creare, afferma Luce. Sceglie l’inadeguatezza come unico luogo accessibile. L’unico punto fermo della sua vita di autrice paralizzata è il movimento. Nei vari libri, così diversi, ogni volta sorprendenti, si sposta continuamente. Dà voce a tutti, ai terroristi rossi, ai naziskin, alla malattia mentale, agli extraterrestri, e ogni volta cerca la loro lingua.
Ma il punto di partenza è sempre lei, quell’onda che si alza e s’ingrossa e inghiotte la sua piccola figura. Luce non teme di essere inghiottita. Raccolgo i miei straccetti, dice, mi preparo il nido come la gatta che deve partorire. Di nuovo, come a Verona, butta via i documenti della sua identità, non vuole salvacondotti. Ogni volta scarta la salvezza, e accetta lo sgominato inferno della psiche creativa. Racconta l’invisibile, ciò che sfugge di continuo allo scrittore stesso. Si affida all’ignoto, per raccontare l’altro da sé. Donna senza radici, strappate più volte, la sua unica radice è quella macchina da scrivere. Il lungo racconto dell’umanità che lei prende in mano per il tempo della sua vita, asservita a una catena, dove sa di non essere né la prima né l’ultima. Ma soltanto un viandante. Perché la scrittura, dice, ci libera dal peso del nostro io. Un atteggiamento francescano, di profondo stupore verso ogni cosa creata. Luce non considera mai la ragione un involucro stabile. La sua coscienza è sempre al fronte. Parla del potere mistificante dei mezzi di comunicazione. Lotta sotto le macerie ideologiche dell’epoca che attraversa.
Scrive contemporaneamente alla realtà, la anticipa. Abbraccia le diversità. Finché un giorno sorvola definitivamente i limiti della Terra e dell’antropocentrismo e si affida all’era spaziale. Si appassiona alla fantascienza e scrive Partiranno, il suo libro più caro. L’aliena Lucetta accende il radar delle rivelazioni cosmiche e ascolta la ragione degli alieni. Forse è l’ultimo atto della scrittrice, della donna, sollevarsi in alto, per condurre in terra ai “bipedi spellicciati” una nuova ricetta, folle, spiritosa, spiazzante. Lucetta non potrà mai tornare a farsi una corsetta con le sue piccole gambe stecchite. Ma i suoi alieni riescono a rigenerare gli organi compromessi.
Si affida ai posteri quando si chiede, ci chiede, domanda irriverente oggi più che mai: E se la salvezza del nostro succulento paese dipendesse proprio dalla saggezza di esseri provenienti da altri paesi? E della ragazza che ha studiato Kant è straordinario l’approdo alla trascendenza spaziale, quando lei immagina se stessa in un’altra vita come un cosmonauta che esplora l’universo. A quel premio Strega la cosmonauta non entrò nemmeno in cinquina. Nel mio caso era del tutto atteso, esordivo con una dignitosa casa editrice. Nel caso di Luce fu un’indegnità, a cui nessuno sembrò far caso più di tanto.
All’epoca non conoscevo il mondo letterario, ero una totale outsider, però avevo una discreta cultura teatrale, così rimasi sorpresa dall’efferatezza della rappresentazione. Un vero sgambetto a quell’immensa autrice in sedia a rotelle. Lucetta si era truccata, aveva una collana e le sue gambette ferme sotto la gonna lunga da sera. Era di nuovo una clandestina. Ripensai alle pagine finali di Deviazione, quando il Lagerführer la prende a calci le sputa la insulta perché è colpa di puttane come lei se hanno perso la guerra, e grazie a questa frase Luce non lo ricorderà con odio, perché almeno lui le aveva dato atto d’avergli fatto perdere la guerra. E Luce d’Eramo scrive: è l’unico riconoscimento che io abbia mai avuto. Si rimpicciolì, lasciò scorrere il circo, ma non fece la parte offesa della ferita a morte. Le portai un bicchiere di vino. No, non aveva nessuna intenzione di isolarsi. Era un’aliena, ma desiderava comunicare la sua esperienza. Ricordo il suo insegnamento che poi ho fatto mio: si scrive per gli altri, per se stessi bastano attività più discrete, pensare, tenere un diario. Si scrive per moltiplicare la propria esperienza.
Alla commemorazione funebre di Lucetta la cosa che più mi commosse fu quando Marco parlò di quel triste esercizio del dopo, dello sgombero, di quando vai a mettere le tue mani nelle cose sospese, interrotte dalla morte, ma non morte. Il pudore che ti ricaccia indietro. Il cuore impietrito. Parlò dei bollettini di conto corrente, raccontò che ne aveva trovati tanti, di tutti i tipi, per infinite associazioni umanitarie, vere o presunte, aveva così scoperto che la madre mandava soldi a tutti. Senza domandarsi per quale scopo, il solo fatto che chiedessero le bastava. E credo che questo sia il balsamo della sua scrittura, ha sempre dato tutto a chi chiedeva, senza conoscere ragioni o destinatari, solo per rispondere a un bisogno, per non lasciare scoperto un richiamo.
Vorrei concludere con le sue parole: …gli extracomunitari che dormono in macchina, gli zingari nei loro camper, i barboni sull’asfalto, i bambini randagi nelle strade brasiliane, tutti i maltrattati della Terra sono i miei prossimi più cari. Essi sono l’alieno che è tra noi. Ignorarli e respingerli è come alienare una parte di sé, è come amputarsi. Se Francesco d’Assisi fosse vivo oggi, assieme al Fratello Lupo, al Fratello Sole, alla Sorella Morte (che nell’inconscio nostro s’addice solo agli altri) avrebbe sicuramente incluso nel suo cantico il Fratello Alieno. Questo testo fu pronunciato undici anni dopo, nel 2013, nell'ambito delle "Giornate di studio su Luce D'Eramo Roma 1-2 marzo 2013: Come intendersi con l'altro".
da Io sono un’aliena, Feltrinelli, 2025
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