Il videogioco Mafia: Terra Madre catapulta i giocatori nel 1904, alle origini della fortunata serie che dal 2002 racconta la criminalità organizzata italo-americana. Ma c’è un problema: è l’ennesimo videogioco con protagonisti dei mafiosi. Mentre le vere vittime non diventano mai eroi
C’è stato un casino a Collezolfo, alla perriera. La miniera, in italiano. Lavoratori morti, fughe di gas, la montagna che borbotta, i crolli e poi la mafia, il brigantaggio, un’Italia giovane e gli anarchici contro i Savoia. Nel 1904, nel piccolo paese (fittizio) di San Celeste si ambienta il nuovo capitolo della serie di videogiochi Mafia. L’ultimo di una saga dal titolo poco fantasioso, ma che almeno chiarisce subito il tema centrale delle sue storie.
Edito da 2K Games e uscito l’8 agosto, Terra Madre prova a fare un balzo indietro rispetto alla strada precedentemente intrapresa, con l’ambizione di raccontare anche come Cosa Nostra ha consolidato il suo potere. Hangar 13 – lo studio di sviluppo – ha spostato quindi l’attenzione alle origini della loro epopea mafiosa, ambientando la storia in Sicilia e riportando lo stile di gioco indietro agli inizi degli anni Dieci del Duemila, quando i videogiochi ancora non avevano iniziato a inseguire il dogma commerciale del mondo aperto e offrivano, invece, una struttura piuttosto lineare, a missioni. Una sorta di serie televisiva interattiva.
La trama
Il protagonista è Enzo Favara, u carusu, un figlio di nessuno scappato dalla miniera della proprietà del don Ruggero Spadaro per arrivare, dopo alcune peripezie, al vigneto della famiglia Torrisi. Da lì la sua salita al potere, la sua vendetta, da picciotto al rito iniziatico, fino a diventare caporegime.
È una gangster story rurale, d’azione, affascinante in alcune scelte di design e in alcune ricostruzioni storiche. E certo, a volte, casca un po’ nella glorificazione, in quella strana posizione dove la mafia viene raccontata come se fosse un fenomeno di costume. A corredo il doppiaggio in siciliano, la ciliegina sulla torta di un videogioco, in fin dei conti, poco più che discreto.
La sua morale di fondo è che dalla mafia, una volta entrati, non si esce. Non c’è scampo per gli innamorati che vogliono fuggire negli Stati Uniti. Nessuna salvezza né redenzione, solo una spirale di violenza che si risolve con una guerra senza esclusione di colpi. Alla fine, quando emerge un vincitore, questo comanda un cumulo di macerie. In un certo senso, mostrare l’efferatezza, l’orrore e la violenza costituisce, di per sé, una storia antimafiosa. Una fotografia banale però, già sentita. Incalzante, a tratti: un sentiero troppo facile da percorrere e spesso scivoloso.
Perché a inquadrarli come protagonisti, i mafiosi, paiono eroi. E non basta vestire i giocatori da poliziotti per sistemare le cose. La società civile, quella che resiste alla mafia, nei videogiochi, dov’è? Non ci sono mai protagonisti comuni contro la criminalità. Non c’è traccia di nessun Peppino Impastato né di una storia pronta a superare la dicotomia guardie e ladri, stato o assenza di stato.
Una continua, e pericolosa, omissione.
Rendere il crimine pop
Intanto, i più famosi titoli gangster continuano a inquadrare gregari di organizzazioni italo-americane sulla scia del Padrino di Coppola (e quindi del best-seller di Mario Puzo), o degli Intoccabili di De Palma. Qualche piccola variazione sul tema con la Yakuza giapponese, oppure con la Triade cinese in quel capolavoro sottovalutato di Sleeping Dogs, un thriller ambientato a Hong Kong su un agente sotto copertura ispirato a film come Infernal Affairs e The Departed.
Ecco, quando i giocatori e le giocatrici interpretano criminali efferati, nonostante sensi di colpa e voglia di fuggire, a contrastarli sono sempre altri criminali. Rimangono invece silenti le vittime di tutti i giorni, le persone. E si realizza, quindi, il timore di Truffaut, lanciato con riferimento ai film di guerra. «Trovo che la violenza nei film sia davvero ambigua. Per esempio: alcune pellicole si definiscono contro la guerra, ma non credo di aver mai visto un film anti-guerra. Ogni opera sulla guerra finisce per esserne a favore. Mostrare qualcosa significa nobilitarla», disse il regista francese al Chicago Tribune nel 1973.
Il giornalista che lo intervistò, Gene Siskel, aggiunse: «La guerra non è l’inferno; sono gli uomini che la conducono a essere diabolici. E in ogni film di guerra, come in ogni guerra, ci sono degli eroi. Ciò sembra annullare qualunque sentimento contro di essa». Allora, seguendo il ragionamento, non mostrare l’antimafia nei videogiochi significa non nobilitarla. Così la mafia diventa pop.
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