Quella puntata inizia con lunghe istantanee della bacheca del ristorante dei Berzatto. Sulla lavagna bianca c'è il countdown per l'apertura del locale, post-it colorati, avvisi, fallimenti cerchiati. Date di scadenza sottolineate così tante volte che sono quelle strisce nervose tirate sotto orari e giorni a comunicare l'urgenza e la fretta, più che i numeri precisi scritti in alto. Poi ci sono messaggi e uno di quelli dice: Fuck my life to death, “Fanculo la mia vita fino alla morte”. Sei nelle viscere del cervello di Carmy, nella poltiglia familiare e gastronomica del tormentato e geniale chef protagonista di The Bear.

È il quarto episodio della seconda stagione: si intitola Honeydew. In traduzione: “melata”. Indica, dice il dizionario, quella sostanza secretata dagli insetti che poi le api raccolgono per produrre miele. Di miele e zucchero ne userà tanto il panettiere Marcus che, per diventare esperto del reparto dessert, verrà spedito a Copenaghen.

Foto Michela A. G. Iaccarino

La Danimarca, da quasi mezzo secolo, risulta in ogni statistica stilata il paese dove abitano i più felici del mondo. Ogni articolo dedicato a Copenaghen prima o poi ti fa compiere il percorso d'iniziazione all'hygge, una parola intraducibile che indica il sentimento di sentirsi soddisfatto, accolto, bene nella pelle e nella testa. Sbirci attraverso le finestre delle case basse. Fissi le vetrate dei ristoranti e bistrot: i danesi sono di quei popoli che si sanno portare a cena da soli, partecipano a lunghi pranzi solo con loro stessi a tavolo.

Foto Michela A. G. Iaccarino

La prima cosa che fa chef Marcus, quando, in berretto e sneaker, arriva in quella che oggi è diventata la città-epicentro della kitchen culture, capitale regina della gastronomia del Nord, è mangiare un hotdog a Kongens Nytov. Saldi come i colonnati simmetrici alle spalle, stanno i chioschi dei panini con la salsiccia nella piazza dell'area Indre. Il mare di ferro, ruote e teli, delle biciclette appoggiate una sull'altra, appartiene agli educati clienti in fila ai casotti, dove vengono esposte mini-enciclopedie illustrate con decine di esemplari diversi di salsiccia.

Ci sono salsicce di ogni colore, specie, genere e prezzo. Scegli e ti porgono il panino braccia muscolose e tatuate: quasi tutte quelle che stanno nelle cucine danesi, lo sono. Anche se già sai che lo è, chiedi alla vecchina alla cassa se proprio questo il chiosco di The Bear. Ti sorride in danese, versando sul pane litri di mostarda e ketchup che coleranno durante una passeggiata in cui impari che le polpette di porco speziato si chiamano “frikadeller”. A Kongens Have, il giardino del re, a passo d'oca, guardie bardate di tutto punto si danno il cambio.

Marcus vivrà per l'intera “Melata” su una barca, una delle centinaia che sono attraccate lungo i canali dove si specchiano case di tutte le sfumature di giallo e rosso, arancione, blu e verde. «Spazza, dai da mangiare al gatto e goditi il soggiorno» dice il biglietto che gli hanno lasciato sul tavolo del battello fluttuante. E Marcus puntualmente spazzerà e poi darà da mangiare a un gatto che forse non esiste: esiste solo la sua ciotola, sopra c'è scritto Coco. L'animale non verrà mostrato in nessuna inquadratura, ma Marcus capisce che non devi per forza vedere e controllare tutto, per sapere se qualcosa è reale, vero.

Tutti i colori

La città ha colori saturi di ogni gamma, specialmente quando arriva la luce che precede il tramonto, quella dorata come i croissant che ognuno vuole mangiare da Hart Bageri. Quella che appare nell'episodio di The Bear è la migliore pasticceria di Copenaghen e forse del mondo, come si legge sui certi giornali di settore che devono dare stelle alle pagnotte speziate e ai bignè al cardamomo.

L'insegna illuminata a forma di mano con due cerchi dentro (sembrano occhi, ma forse sono tuorli d'uovo) la vedi da lontano a Holmen: sta su un edificio che prima usava la marina danese. Pure qua c'è la fila per avere sfoglie burrose alla crema da mangiare sotto il cielo plumbeo, ma stranamente ospitale. L'ha fondata Richard Hart, star del pane a lievitazione naturale che ha abbandonato San Francisco per l'orizzonte liquido della Danimarca, quando è stato reclutato ai forni del Noma – il miglior ristorante al mondo per anni ed anni di fila, tra i cui banconi finisce anche lo chef di Chicago.

Foto Michela A. G. Iaccarino

Forse, anche nelle cucine nascoste sul retro di questa bageri c'è un Lucas, lo chef che insegna a Marcus a fare il gelato, a sistemare con le pinzette, certosino, scaglie minuscole sulla gelatina, con la stessa accuratezza con cui si compirebbe un'operazione chirurgica. Come se quelle sculture di glucosio fossero destinate ad essere ammirate per sempre sotto teca e non mangiate in un secondo. È in quell'episodio che Lucas, mentre impasta, regala a Marcus una ricetta per la vita: «Quando ho capito che non ero il migliore, l'ho presa come cosa positiva. E ho cominciato a lavorare più forte».

La sosta è al baretto di Refshaleoen, l'ex area industriale costellata di musei e ristoranti. La Cirkelringen, la metro circolare, ti porta fino a Norrebro, la zona più rilassata e divertente dei dintorni. Pure qua la parola magica è “fermentazione”. Pure qua tutti applicano fedelmente ogni regola della Nordic Kitchen, “nuova cucina nordica”, manifesto politico, etico e culinario di Claus Mayer (lo chef che, con Rene Redzepi, ha aperto il Noma).

Smørrebrød

A Torvehallerne c'è un mercato all'aperto che si specchia nelle vetrate di quello gemello, che sta al chiuso. È una specie di museo di ogni tipo di pesce, crudités e smørrebrød. Smørrebrød vuol dire “pane imburrato” ed è l'open sandwich nazionale: è un panino aperto, ha una faccia sola, composta da una fetta di pane di segale scuro carico di farcia. Spesso di aringhe, roast beef condito, uova, tutto annegato nella maionese.

Foto Michela A. G. Iaccarino

Quelli coi gamberetti, creme salate e erbe dai nomi impronunciabili rimangono esposti in vetrina solo per pochi minuti prima di sparire nelle bocche dei danesi. Alcuni panini sembrano composizioni floreali e lo sono: tra gli ingredienti ci sono petali. Uno porta il nome evocativo di Stjerneskud, che vuol dire “stelle cadenti”.

Foto Michela A. G. Iaccarino

Un altro è al caviale e quello che mangiano qui arriva da Limfjord, canale dello Jutland settentrionale. Da lì arrivano anche le ostriche del Mare del Nord. Le puoi mangiare su uno dei banchi vista strada, dove oltre il vetro c'è un edificio rosso porpora. Sembra una chiesa, ma al posto di una croce ha un enorme orologio.

Mentre la luce danese taglia perfettamente a metà le cose come fa il cameriere alle spalle con le fette di torta, ripensi alla serie tv che ti fa ricordare famiglie, cucine e cene di Natale. Ma di quelle del passato, quelle in cui, per far sedere tutti, dovevi mettere in fila più tavoli. Cene che ricorderai solo decenni dopo, quando, per questioni di stomaco, fegato e cuore, conterai più posti vuoti che occupati alle feste.

Foto Michela A. G. Iaccarino

Alle tue spalle uno sconosciuto dice: «I made this for you». È tartare di pesce e caviale e non era stata ordinata: infatti è un regalo. Racconta un locale che a Torvehallern non è inusuale che gli chef li offrano. Il piatto lo ha allungato un braccio muscoloso e tatuato come quello del ragazzo degli hotdog, come quello dello chef Berzatto. Forse è uno dei mille Carmy della città, uno di quelli che si chiude dentro una la stanza frigo nel giorno più importante della sua vita. O forse no. Non ti volti per scoprirlo. Non devi per forza controllare tutto, per sapere che è vero. Hygge.

Foto Michela A. G. Iaccarino

© Riproduzione riservata