Partenza da Milano per Monaco alle 9:45 di venerdì 30 maggio. Sono certo che domani, nella finale Champions, l’Inter batterà il Paris Saint-Germain 3-0. La vittoria col Barcellona è stata così epica da scomodare il sacro ricordo dei miei 16 anni: Italia-Germania 4-3.

Mio figlio non fa pronostici, preferisce concentrarsi su Ways. L’app consiglia di prendere la via del Brennero. Però ha portato la maglia numero 10 di Lautaro, il Toro. Io ho portato la 22 di Mkhitaryan. Armeno come Aznavour (e un po’ gli somiglia), poliglotta, plurilaureato, professore di calcio. È lui che ha detto: «Noi siamo ingiocabili». Così come Aznavour cantava: «Io sono un istrione».

Micky è nato lo stesso anno di mio figlio, 1989. L’anno in cui cadde il Muro di Berlino e l’intero assetto che reggeva il mondo, come ci stiamo accorgendo (definitivamente?) in questi giorni. Il 22 (nel senso di 1922) è l’anno in cui nacque mio padre. Tutto torna?

Siamo praticamente sempre in coda per traffico e contrattempi vari. Al passo del Brennero mi viene da canticchiare una vecchia, dimenticata e stranissima canzone dei Pooh. Brennero 66 raccontava la storia di un soldato italiano ucciso dai terroristi altoatesini. Cominciava così: «Ora / non senti nessuna voce / fra gli echi della sera». Smetto immediatamente di canticchiarla e accenno il coro: «Giro l’Italia per te / sognando di nuovo il tricolore / perché l’Inter è il nostro vero amore / e dalla curva un coro partirà: / FORZA NERAZZURRI! / Internazionale! / io te lo canterò ogni momento».

Non sono granché i cori della curva interista. E, in genere, la curva dell’Inter è un problema. Praticamente la succursale milanese della ’ndrangheta (anche se sono calabrese trovo la cosa riprovevole). Per questo non sarà presente domani sera all’Arena Stadt. Chalanoglu & Company senza il calore dei loro tifosi si perderanno nel bosco come bambini abbandonati?

A Bolzano compriamo la vignetta autostradale e mettiamo qualcosa sotto i denti. Sono le due passate, dovevamo essere già quasi arrivati. Meno male che in Austria il traffico scorre. Lunghi camion con su scritto “Gruber Logistics” e tante Tesla i cui proprietari, da come guidano, mi sembrano più stronzi del capostipite Elon Musk (probabilmente è un optional di serie).

Sono vieppiù convinto che vinceremo 3-0 (ingiocabili). Però mi torna continuamente in mente il titolo della tesi in filosofia del mister Francesco Farioli: Filosofia del gioco: l’estetica del calcio e il ruolo del portiere. I portieri domani sera saranno Donnarumma e Sommer, maghi del ruolo. Vuoi vedere che finisce ai rigori? Mi sono portato dietro un po’ d’archivio per il reportage che devo scrivere. C’è anche il racconto di Osvaldo Soriano Il rigore più lungo del mondo. Me lo ripasso. Per ragioni che qui sarebbe lungo spiegare, prima di poter battere il rigore decisivo del titolo deve trascorrere una interminabile settimana. Attesa insostenibile che pesa tutta sulle spalle del portiere Gato Díaz. Giunge finalmente la vigilia e el Gato, che tutta la settimana ha rimuginato senza parlare e ravviandosi continuamente all’indietro «i capelli bianchi e duri», rompe il silenzio. Ha appena mangiato e, uno stuzzicadenti ficcato in bocca, parla del rigorista avversario col suo presidente.

EL GATO: «Constante li tira a destra».

PRESIDENTE: «Sempre».

EL GATO: «Ma lui sa che io so».

PRESIDENTE: «Allora siamo fottuti».

EL GATO: «Sì, ma io so che lui sa».

UN AMICO DEL PRESIDENTE: «Allora buttati subito a sinistra».

«– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire».

Questa è la filosofia del portiere. Questo è il mistero del calcio.

L’albergo è una villetta a due piani con giardino a Kieferngarten. Suite mansardata, caldo tropicale. Doccia e giro in centro. Sotto un portico, una donna dell’Est suona alla fisarmonica Parla più piano di Nino Rota, il tema d’amore del Padrino: «Nessuno sa la verità / neppure il cielo che ci guarda da lassù». Parole sante. Poi attacca Bella ciao. Chiaro: vinciamo 3-0.

In cambio di un Martini ghiacciato come Dio comanda, pagherei una somma quasi equivalente a 33 milioni netti per tre anni. Questo è quello che, a quanto si dice, gli arabi dell’Al-Hilal offrono al mister Simone Inzaghi. La lista dei cocktail disponibili a Marienplatz offre dall’Aperol Sprizz (scritto così) al Munich Mule, allo Hugo (vera schifezza), tutti salvo il Martini, un drink ormai in via di estinzione come l’orangotango, il rinoceronte nero e l’orso polare.

La mattina della partita passeggiamo all’Englischer Garten come giocatori in ritiro. Andrea ha messo la maglia di Lautaro. Lo vedo bello in forma. Su una panchina (quella che Inzaghi sta per lasciare?) trovo un opuscolo tratto dalla Bibbia. Lo leggo come se fosse l’I Ching: «Allora Pilato disse loro: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge”». Inzaghi se ne sta lavando le mani?

All’una ci spostiamo a Odeonsplatz, quartier generale interista. Il sole spacca le pietre e c’è la solita compagnia di giro: Elenoire Casalegno, il telecronista embedded Roberto Scarpini, Severgnini con il suo taglio alla Vergottini. Non mi piace il presepio.

Ci teniamo leggeri con Caesar salad (veni, vidi, vici?) e strudel. Come in un’allegra seduta spiritica, evochiamo i campioni dell’Inter che abbiamo più amato. Samuel, Maicon, il Chino Recoba, il Principe Milito, Figo (basta la parola), Deki, Ronnie, Ibra, Julio. Ma anche pallide comparse come Kily González, detto il Kily, e Andy van der Meyde, uno da vita spericolata alla Vasco.

Arriviamo allo stadio alle 19. Alle 19:38 Inzaghi scende dal pullman dell’Inter. È quello il momento in cui iniziano veramente le partite. Ha la faccia di uno che sta andando a un funerale (il suo?). Qualcosa non va. Allora capisco: ha già firmato per gli arabi. Mediatore, come correva voce, Tommaso, figlio suo e della showgirl Alessia Marcuzzi.

Da vecchio capo di Cultura & Spettacoli a Sette, mi ricordo una cosa. Giorgio Tosatti, firma del Corriere e volto di RaiSport, una malcelata simpatia per la Lazio, una passione quasi da biscazziere per il gioco in borsa, una voglia pazza di fare il talent-scout di star televisive, si vantò una volta che la Marcuzzi l’aveva scoperta lui.

Lo sciagurato sì di Inzaghi agli arabi è un colpo di scena da reality televisivo, una versione per allenatori di Money Road, il programma con il qui presente telecronista Fabio Caressa nella parte del diavolo tentatore: lasceresti per 100 milioni di euro la tua panchina prima di una finale Champions? Ecco perché quella faccia da chi va al patibolo.

«Obbligo o verità?» chiede ai concorrenti Alessia Marcuzzi nel suo nuovo talk show. Verità: 19:38 Simone Inzaghi non è già più l’allenatore dell’Inter e la finale comincia alle 21:00 (un obbligo senza più noblesse). Come stanno vivendo la notizia i giocatori? Come un alto tradimento? Il mister per i calciatori è sempre un Winston Churchill, blood sweat and tears, non un Ponzio Pilato che se ne lava le mani (diceva, dunque, il vero il Vangelo-I Ching lasciato sulla panchina del parco).

Il leggendario incipit di Giorgio Bocca nel pezzo sulla Vigevano del boom economico («Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste»), diventa sessant’anni dopo l’epitaffio dell’Inter battuta 5-0 dal Psg. A Milano, in attesa di quella finanziaria e quella immobiliare, è scoppiata la bolla calcistica.

So già che nei prossimi giorni leggerò ammorbanti disamine su gioco posizionale e gioco transizionale. Mi terrò fedele al vecchio Brera che per capire le partite si travestiva «da fine pissicologo junghiano». Junghianamente è successo che Simone, il quale veniva trattato come un Paperino a cominciare dal suo ex presidente Lotito alla Lazio, ha deciso di trasformarsi in Paperon de’ Paperoni.

«Io triumphe, avventurata Inter». Pensavo di rubare a Brera, per il mio 3-0, l’incipit con cui celebrò la vittoria della Nazionale nel 1982. Devo correre ai ripari con Shakespeare, il pronto soccorso aperto H24 per chi scrive: «Nemmeno tutti i profumi d’Arabia laveranno mai questa piccola mano».


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