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Per capire cosa siano l’identità di genere, il patriarcato, persino il femminismo oggi bisogna interrogare la maschilità invece di darla per scontata.
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Questa è Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. È un osservatorio sulla metà del cielo che ci è sempre parsa nota, dominante, standard, e intende rimappare le costellazioni visitando sia pianeti familiari che sistemi remoti, mai raggiunti prima dai telescopi.
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Come tutte e tutti, questa settimana ho letto le parole di Alessandro Barbero sulle «differenze strutturali tra uomo e donna». E come tutte e tutti, all’inizio, ne ho fatto una questione di misoginia, ragionando su come queste ombre d’essenzialismo finiscano per rimproverare alle donne di non essere abbastanza uomini, sorvolando proprio sulle strutture che impediscono alle differenze di avere quartiere nella macchina produttiva che premia solo spavalderia, aggressività e forme di sicurezza di sé che si esprimono a discapito dell’altro.
Poi però mi sono ricordato di Carla Lonzi, i cui progetti di femminismo rivoluzionario contemplavano un’alleanza feconda tra le due vittime principali delle strutture patriarcali: la donna e l’uomo giovane, non ancora sedotto e convertito dal potere che il patriarcato si prepara a conferirgli dopo averlo trasformato in un suo violento alfiere attraverso umiliazioni e premi (appunto) alla spavalderia, all’aggressività. Come femminista, vorrei essere quell’uomo giovane. E allora ho scritto per Domani un pezzo non su Barbero e le donne, come ne sono usciti molti, ma un pezzo su Barbero e gli uomini.
Il ragionamento, che trovate qui, parte da uno dei primi giocattoli di cui io e mia sorella avevamo due versioni diverse: quei medaglioni di plastica che contengono strutture architettoniche in miniature abitate da microscopici personaggi. Il mio era Mighty Max, il suo Polly Pocket. Per ognuno dei nostri mini-omologhi disponevamo di tre o quattro diverse strutture, e amavamo ogni tanto invitarli l’uno nella struttura dell’altra. Tuttavia, mentre i medaglioni di mia sorella contenevano case in cui Mighty Max poteva essere accolto come ospite gradito, i miei erano serpenti, teschi e tarantole con dentro terrificanti labirinti. Ospitarci Polly Pocket sarebbe stato un supplizio per lei.
Mia sorella mi offrì (lo ricordo, ora, con commozione) di fare uno scambio, ma io la casa di Polly non la volevo, perché era da femmina, e Max, senza di lei, mi ci pareva solo un intruso. Perché non può esserci una confortevole casa da maschi, in cui esercitare la curatela invece della conquista, e il valore virile lo si può solo dimostrare nella pancia di un mostro da sgominare?
L’alternativa alla maschilità ineluttabilmente digrignata e orrorosa già esiste mi sembra. Il mio verso preferito di Petrarca è la vertiginosa allitterazione nel primo sonetto del suo Canzoniere, «di me medesmo meco mi vergogno»: un balbettio imbarazzato, una confessione di fragilità che inventa l’io moderno, il soggetto lirico e maschio d’occidente. È in quel soggetto che vale la pena rispecchiarsi di qua e di là dai discrimini di genere, più che nella spavalderia dell’Africa. Non che l’epica non possa proporre strutture abitabili per maschi sfibrati dalle aspettative del patriarcato.
Il mio verso preferito di Dante, da quando me l’ha spiegato Giulio Ferroni, è in Paradiso, nel passaggio dal cielo del Sole a quello di Marte: quando Dante si domanda se i beati non vedano l’ora di riavere il proprio corpo dopo il giudizio universale «forse non pur per loro, ma per le mamme». L’idea chiaramente è che senza corpo, pur in paradiso, non si può del tutto esprimere il proprio amore: non si può abbracciare, non si può accogliere. Questa anelata fisicità non erotica mi entusiasma.
E d’altronde, sebbene Dante fosse certo uno spavaldo, non possiamo dimenticarci che leggerlo senza peccare di blasfemia significa sapere, in fondo, che tutte quelle sue pur fisicissime avventure (e svenimenti, e batticuori, e spaventi, e timidezze) le ha vissute nella sua camera. Come Ariosto, che infatti si vantava di vivere l’eroismo sulla carta di mappe e pagine di libri invece che sul legno delle barche. Insomma, immaginando (o riscoprendo) una maschilità da camera si può forse risolvere il problema dell’inospitalità trasversale dei nostri paradigmi di genere: le brutture angoscianti degli antri in cui il povero Mighty Max è in perpetuo esilio.
Sono esaltato nell’accompagnare a questo commento lonziano sul maschio che vorrei essere un potente estratto dal romanzo Sarà solo la fine del mondo, esordio narrativo del regista, drammaturgo e attore teatrale Liv Ferracchiati. Marsilio me ne ha concesso la pubblicazione e l’ho intitolato, citando dal libro, Un fascinoso esemplare di maschio transgender. Lo trovate qui.
Tutto il libro, oltre a speculare sul futuro e raccontare una serrata eppur divagante storia quasi epica, si interroga sull’oggetto d’indagine di questa newsletter e rubrica: la maschilità. Nel brano che ho scelto le cose da maschi sono due: il binder, che serve a contenere indesiderate mammelle, e la gelosia violenta, che ispira istinti d’aggressione.
Una delle avventure principali del protagonista di Ferracchiati è una fantasia d’avvicinamento allo specchio: una contesa tra il desiderio di riconoscersi o di non corrispondersi che parla all’esperienza umana di chiunque. Nell’episodio che conclude l’estratto su Domani, questo duello va proprio a incagliarsi negli stereotipi emersi dalle parole di Barbero, a cui il narratore risponde con lucido rigetto.
La mia parte preferita del libro sono le argute note a piè di pagina che interrompono come lentiggini esilaranti il flusso ipnotico del monologo narrativo, ma purtroppo sul giornale non si possono riprodurre. Spero che le leggerete nel libro!
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