Ho trascorso il fine settimana a traslocare, un’attività quantomai da maschi. A forzare il mio esercizio all’autonoma virilità è stata la natura peculiare dello spostamento: per la prima volta nella mia vita ho traslocato nello stesso palazzo, cambiando solo appartamento.

Ne sono lieto: la nuova dimora è ben più bella – e tuttavia, per le strane logiche degli affitti americani, costa uguale alla precedente. Un affare. Ma ovviamente, non occorrendo furgoni e analoghe complicazioni, il mio istinto d’ometto tuttofare mi ha suggerito di comprare un carrellino e una torretta di vani di plastica impilabili per dedicare giorni interi al rocambolesco travaso di oggetti da un piano all’altro, in una spirale straniante di incontri ripetuti con ascensore e corridoi (e detestabili scalini sulle soglie di ciascun appartamento). Non che, d’altronde, potessi fare davvero tutto da solo.

Due oggetti monumentali in particolare, inamovibili senza ricorrere alla cooperazione con altre braccia e gambe e occhi capaci, mi hanno spinto a prenotare i servigi di una compagnia locale che (lo giuro!) si chiama “2 Young Studs” (cioè letteralmente “due giovani stalloni”). Tali oggetti, macchinosamente trascinati dai due “stalloni” manifestatisi domenica pomeriggio, sono il letto (king size, vera americanata) e il grandioso divano, profondo e corpulento, che ho comprato appena attraversato l’Atlantico e da allora mi accompagna.

Di letti e lettoni avevo già ragionato per Cose da maschi. Mi è parso dunque opportuno onorare le ossessioni materiali di questi giorni di fatica ragionando invece, per questo numero di ritorno alle vecchie abitudini bi-settimanali, di divani. O meglio, di divanità maschile. D’altro canto proprio questa settimana si celebra il Salone del mobile a Milano, e il divano mi pare il più mitologicamente da maschi tra i mobili delle case che ho abitato.

La più felice delle vecchie abitudini che torna oggi è quella di ospitare, in questo nostro epistolario, i mirabili collage di Didier Falzone. Come al solito è scoccata tra noi una scintilla d’estetica intuizione remota: gli avevo detto genericamente, giorni fa, che avrei scritto di divani, e lui ha pensato subito a divani surreali: quello di Dalì, che traghetta i discinti protagonisti videogiocatori dell’illustrazione in un ricreativo e oceanico bagno misterioso di parquet da salotto, e quello implicito di de Chirico, dei suoi “mobili nella valle” di un secolo fa.

È proprio da quei mobili sperduti in desolati scenari naturali che parte il mio pezzo di questa settimana, che trovate qui su Domani online e uscirà sabato prossimo, come di consueto, in edicola.

Ragiono di etimologia (pensavo, come uno scemo, che ‘divano’ significasse doppio vano, spazio a sedere per due) e di de Chirico appunto. Scarto i divani di famiglia, quelli degli amanti, quelli dei mariti esiliati lontano dal talamo coniugale, e mi soffermo invece su come si abita il divano performando la maschilità: sbracati, insieme ma divaricati dalla geometria del mobile, uniti da un’intimità speciale a cui credo che la socializzazione maschile addestri. È un omaggio non solo al Salone di questi giorni e alla Metafisica dechirichiana degli anni Venti, ma anche all’editor di Cose da maschi, Ivano Pierantozzi di Einaudi, che da maschio balenabile qual è sui social si chiama “Divano Pierantozzi”. Il libro che egli ha pastoralmente accompagnato alla pubblicazione ha continuato a girare in questi giorni.

Ho portato Cose da maschi a New York, con Eli Gottlieb, nella splendida Rizzoli Bookstore, per un evento che è finito per svolgersi interamente in inglese sebbene il caloroso pubblico fosse in grandissima parte italofono (grazie a tuttə per la partecipazione!).

Dal mio studio a New Haven mi sono poi connesso via zoom col Pigneto, per dialogare remotamente con Lorenzo Gasparrini allo Sparwasser di Roma, dove un pubblico altrettanto caloroso ci ha rivolto domande sui nostri libri – e io, appeso alle cuffie come alla cima di una nave allegramente in tempesta, ho cercato di tener dietro al sornione intelletto Gasparriniano, che non te le manda a dire. E poi, a Yale, ho officiato una seduta spiritica in cui colleghə, studentə e dottorandə hanno condiviso le loro cose da maschi, come in uno show&tell: palline di biliardino e frullati proteici, vanghe per spalare la neve, giacche di pelle, sestanti, parlate da maschio, sciarpe da tifo del baseball, ragni, fiaschette, catenine e un flacone di AXE bodyspray, che ora risiede sulla mia scrivania.

Sto avendo la fortuna di ricevere graditissimi riscontri su questo libro, che estende fuori dal cerchio del nostro scambio di lettere il ragionamento un po’ imbambolato sulle cose cui assegniamo l’aura della maschilità. A proposito di imbambolamento, uno di questi riscontri in particolare mi era arrivato a Roma, prima di ripartire per l’America: uno splendido bambolotto artigianale, con la sua coperta e cappellino, con un orsacchiotto dotato di cuore.

Me l’aveva mandato Cinzia Ferrari, che fa la bambolaia e insegna come cucire simili deliziose creature di lana e cotone. Leggendo il libro, Cinzia stava ragionando sull’arbitrarietà delle barriere di genere che caratterizzano la sua professione, e l’ho dunque invitata a scriverne.

Trovate il suo pezzo qui su Domani online. In queste righe personali e pensierose, Cinzia insiste su un punto che la nostra rubrica tocca sovente ormai da molti mesi: la permeabilità degli steccati di genere, che spesso si travalicano più facilmente in una direzione. Alle bambine si consente serenamente di partecipare a certe cose da maschi, ma in direzione contraria scattano invece paranoie e ansie arbitrarie. Giocare con cose socializzate come femminili può diventare un rischioso tabù, un’espressione involontaria d’identità, un cruccio familiare. Il mondo delle bambole artigianali è percorso da simili preoccupazioni, che Cinzia ci aiuta a dissipare ricordandoci che gli steccati, saltati da un lato, sono saltabili anche dall’altro. E sulla divanità e saltabilità di maschi e bambole vi saluto con spaparanzato affetto.

Ci sentiamo tra due mercoledì.

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