Venuto al mondo nel 1988, non ho conosciuto l’angoscia della leva obbligatoria. La immagino però come un’angoscia, perché sono nato abbastanza presto da avere cugini e conoscenti che invece la visita l’hanno fatta – alcuni proprio il servizio. Sicuramente ricordo che a un certo punto, tra le molte sue assurdità paternali, il leader della Lega (sbugiardato martedì 8 marzo in Polonia come voltagabbana filo-Putin) se ne era uscito con l’idea di reintrodurla, la leva obbligatoria, al balzano fine di riforgiare il carattere dei ragazzi italiani ridotti a vandali perdigiorno senza spina dorsale in questa supposta epoca di pace.

Devo dire che ci sono aspetti della caserma, della coscrizione, che, come studioso di letteratura contemporanea italiana e delle performance del genere con cui mi identifico, non posso non trovare interessanti. Umberto Saba, un poeta chiarissimo che però fatico a capire davvero da anni, esprime un’euforia proprio legata all’indagine della maschilità (sua e degli altri) nei Versi militari.

Il teatro sociologico dell’arruolamento forzato, della guerra mondiale, lo aveva messo cuore a cuore, da triestino per metà ebreo, con italiani di ogni risma, che lo appassionavano. Giorgio de Chirico e Alberto Savinio (altre mie ossessioni enigmatiche di novecentista) l’italianità la ottennero, almeno sui documenti, presentandosi volontari per l’esercito. La caserma, però, la disprezzarono profondamente – almeno Giorgio, che descrive la sua stagione militare con altezzoso orrore nelle sue memorie, pur avendone tratto alcuni dei quadri più incredibili del modernismo europeo.

E che dire di Ungaretti, di Vittorio Sereni col suo tremendo e superbo Diario di Algeria, dei detestabili bombardamenti tipografici di Marinetti, del primo Calvino e, decenni più tardi, dell’ultimo Fortini che, nelle disincantate e tristemente incantevoli Sette Canzonette del Golfo, ci aiutava a contemplare i conflitti remoti e vicinissimi di questa solo apparente fine della Storia, della modernità, a ritmo di filastrocca:

Lontano lontano si fanno la guerra.

Il sangue degli altri si sparge per terra.

Io questa mattina mi sono ferito

a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.

Oh povera gente, che triste è la terra!

Non posso giovare, non posso parlare,

non posso partire per cielo o per mare.

E se anche potessi, o genti indifese,

ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!

Potrei sotto il capo dei corpi riversi

posare un mio fitto volume di versi?

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.

Mettiamo una maglia, che il sole va via.

Franco Fortini, Composita Solvantur, 1994.

Ebbene, questi ragionamenti di caserma e di poesia, di pittura e di contemplazione della guerra «degli altri» mi hanno fatto pensare alla leva, a cosa significasse, lungo i centoquarantatré anni in cui ha accomunato le vite di quasi tutti i giovani di cittadinanza italiana nati prima di me, quel concretissimo rituale di passaggio alla maturità maschile.

E dunque da quel rituale sono partito nel pezzo che trovate oggi qui su Domani online, e che sabato sarà in edicola nell’edizione cartacea del giornale. In particolare, ho ragionato su come si selezionassero i maschi «idonei» in quel processo di verifica di una certa idea di normalità, volto anche a escludere chi non corrispondesse a ciò che si era stabilito come sano, adatto, utile.

Si dice che uno stratagemma per identificare, nel leggendario «questionario dei tre giorni» della visita militare, i cosiddetti «devianti» fosse quello di chiedergli se gli piacessero i fiori e se volessero fare i fioristi. Ho scelto perciò i fiori come cosa da maschi di questa settimana.

Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da maschi

Come avevo annunciato la settimana scorsa, in questi spaventosi giorni di guerra prossima e totalizzante vorrei scrivere, per almeno un mese, di oggetti che hanno a che fare appunto col paradigma guerresco della maschilità. I fiori sono però forse un conato di resistenza a questo (perdonatemi il gioco di parole banalissimo) fioretto. Mettete dei fiori nei vostri cannoni diceva l’adagio, e figli dei fiori si chiamavano quelli che, lungi dall’essere banali utopisti strafatti, svilupparono in occidente i più seri ragionamenti su cosa materialmente comporti il pacifismo radicale, l’obiezione di coscienza, la scelta anche illegale (anche pericolosa) della non violenza.

Mentre scrivo queste righe è ancora l’otto marzo qui negli Stati Uniti, una ricorrenza che in Italia, e solo in Italia, è legata a un fiore: la mimosa. Fu scelto da una giovane madre costituente, la comunista antirazzista Teresa Mattei, che per la giornata internazionale della donna voleva un simbolo povero, accessibile, che crescesse spontaneo nei campi. La mimosa era il fiore montano delle partigiane, un fiore di lotta, un simbolo concreto radicato nella materialità di una stagione e di un paesaggio.

Non ho regalato mimose per quest’otto marzo, ma ho invece ricevuto un regalo dal Libraccio, mia libreria del cuore: Carlotta Sanzogni mi ha invitato a parlare di Cose da maschi (e di maschilità tossica in generale, ma anche di Uomini e Donne e della mia maglietta) in diretta Instagram per l’iniziativa Oltre l’otto marzo. Le sono molto grato, e sono grato alla formidabile interprete LIS, Mita Graziano, che ci ha tradotto in simultanea – spero non troppo disturbata dal mio forsennato gesticolare, che potete appurare qui.

Scrivere dopo quella conversazione è stato particolarmente brioso. Nell’articolo, dopo il ragionamento sullo spettro dei fiori alla leva militare (e su ciò che ne sentii dire da Vladimir Luxuria in uno studio di Mtv quando ero una matricola a Roma), metto insieme Pascoli e Leopardi, Batman e i Bluvertigo, Bart e Bambi per capire come mai i fiori, come merce, si regalano solo alle donne, e che per riceverli un uomo debba essere malato o morto.

Abbiamo poi la fortuna di ospitare un altro articolo questa settimana, molto personale e al contempo curiosamente universale, su una categoria di oggetti legati al dominio dell’elettricità domestica – che di questi tempi, a causa della geopolitica delle risorse energetiche, ci inquieta non poco. Ce lo regala Ilaria Bonvicini, giovanissima storica dell’arte che mi ha scritto diverse settimane fa per condividere con me l’idea di una cosa da maschi cui non avrei mai pensato: la prolunga.

Ilaria, in un op-ed che trovate qui su Domani e che inquadra la rubrica intera di Cose da maschi dalla prospettiva di una giovane donna colta e impensierita dagli oggetti, ragiona su come le prolunghe, le ciabatte, le doppie spine e simili ammennicoli tendano ad accumularsi come estensione dell’uomo-tuttofare, noncurante della funzionalità dello spazio – e anzi forse inconsciamente desideroso di appropriarsene in un manspreading di cavi e prese non sempre funzionali.

Con grande acume, l’autrice mette in dialogo questo ammasso da elettricista amatoriale fai-da-te, tipica espressione domestica dei padri industriosi, con certi esperimenti materiali dell’arte povera, che illuminano le gallerie con neon attaccati alla corrente. Cita, e questo mi emoziona, un’ispirazione importante di Cose da maschi, Georges Perec, e sposta l’attenzione dell’indagine della rubrica dall’autonomia delle cose al loro posto nelle architetture, dalla performance interattiva con gli oggetti al loro trasformarsi in ostacoli, trappole, lacci. Ma tira fuori anche Sex Education, le luci di Dan Flavin, Mario e Marisa Merz, e la sua biografia di corpo in una casa, assediata dall’armamentario silente e proliferante di un rimosso che si propone come soluzione ma, invece, complica.

È molto bello vedere come conversazioni nate per email, in reazione a un numero di una newsletter, sboccino poi in un pezzo come questo, e ringrazio Ilaria per averci lavorato e per offrirlo a questa comunità, che spero continui a contattarmi con le sue idee sul catalogo delle cose da maschi.

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