Come forse chiunque legga queste righe, questa settimana ho pensato molto, oltre che all’elezione del presidente della Repubblica, al lavoro. Specificamente, alla cosiddetta “alternanza scuola lavoro”, nelle cui maglie un ragazzo appena maggiorenne è stato ucciso da una trave d’acciaio in uno stabilimento metalmeccanico.

Non serve che mi pronunci, nel mio sbigottimento inebetito, su questa circostanza tragica; su questo labirinto di tradimenti i cui punti d’uscita sono tutti ciechi: i commenti lucidi sono stati molti, e le parole utili sono invece pochissime.

Vorrei solo dire che sarebbe bello se imparassimo una lezione dal pensiero socialista e dall’industria d’avanguardia, che un tempo elettrificavano il progresso e la cultura (persino la poesia) di questo paese, e concepissimo, invece dell’alternanza scuola lavoro, un’alternanza lavoro scuola.

Se lavorassimo meno perché tutte e tutti abbiano modo, dignitosamente, di lavorare, potremmo immaginare periodiche pause dalle nostre attività produttive per dedicarci ai più improduttivi tra gli studi: materie che servono solo a scuola, da scegliersi tra quelle offerte dall’università pubblica e da abbracciare solo per un semestre – magari anche senza dare nessun esame alla fine, o almeno senza ottenere alcun voto o credito o titolo.

Lo dico perché la scuola, lo studio, non bisogna necessariamente concepirli come funzioni qualificanti o abilitanti, né si deve credere che siano alternative o prodromi al mondo e alla vita attiva. Sono anche, forse soprattutto, ripari, rifugi, vacanze, e come le vacanze sono necessari anche se (soprattutto se) non sono fruttuosi nel senso più stretto e immediato del termine.

Ogni grado d’istruzione dovrebbe chiamarsi “asilo”, non solo il primissimo, perché la scuola non ci deve preparare al mondo ma proteggerci da esso – e insegnarci a rimanere al sicuro dai suoi orrori, schivandoli o combattendoli, quando dobbiamo addentrarvici.

Che bello sarebbe avere, in qualsiasi professione, un semestre sabbatico ogni pochi anni, da dedicare a un ritorno a scuola: corsi inservibili di grammatica latina e trigonometria, filologia germanica e diritto romano, storia del pensiero e drammaturgia musicale. Io credo che il lavoro ci prepari alla scuola, e non l’inverso, giacché lavorare stanca anche se nobilita, e la nobile stanchezza che produce è il terreno più proficuo per i febbrili patimenti delle cose più inutili e fondamentali di questo mondo: le scienze pure, le scienze umane, le scienze sociali, le cose tanto fini e teoriche che spiegano tutto senza risolvere niente.

La Tuta, di Didier Falzone per Cose da Maschi

Ragionando così di lavoro ho pensato di scrivere il pezzo settimanale di Cose da maschi, che trovate qui, sull’abito da lavoro per eccellenza: la tuta, quel capo che unisce pantaloni e camicia in un unico indumento adatto a passerelle di moda e miniere di carbone, costumi da supereroi e uniformi arancioni da carcerati, il lavoro che si fa in fabbrica e quello che si fa sulla stazione spaziale internazionale.

Sono ossessionato da questo oggetto da quando ho assegnato una tesi di laurea sull’artista futurista che lo ha concepito nel 1919 a Firenze, immaginandolo come la divisa ideale per l’uomo del domani.

La tuta sintetizza un modello di superamento dell’identità di genere essenziale per capire l’universalismo maschilista dell’avanguardia italiana: l’idea di liberare le donne dalla femminilità (!) estendendo la virilità (come paradigma, per così dire, inclusivo) all’intera società umana, attraverso appunto la diffusione di cose da maschi pensate come cose per tutti.

Il pezzo parte dagli avvistamenti di dischi volanti che si susseguirono a ritmo serrato in Italia nel 1952, e finisce con le divise degli ufficiali della nave stellare Enterprise in Star Trek: The Next Generation. In mezzo c’è un’elucubrazione un po’ enfatica sull’invenzione e la diffusione della tuta dei futuristi, che mi auguro avrete la pazienza e la curiosità di leggere per scrivermi magari, come sempre mi auguro, con un commento o un’idea.

In questo primo mese del 2022 diverse persone mi hanno in effetti scritto, e di alcune leggerete presto i contributi per Cose da Maschi. Avete però già visto, poche righe più sopra, un contributo assai speciale. Per la prima volta, l’illustrazione che illumina la newsletter – e che troverete sia sul giornale online che nella versione cartacea in uscita sabato prossimo – è realizzata appositamente da un artista brillantissimo, Didier Falzone, che mi ha proposto di immaginare, ogni volta che potrà, una composizione tipica del suo stile per Cose da maschi.

L’immagine di Didier riprende filologicamente la più iconica delle fotografie dell’inventore della tuta, Thayaht, che si fece immortalare con le braccia aperte per mostrare la T formata dal suo capo futurista sul corpo di chiunque lo indossi, a partire dal suo.

Con occhio killer, Didier ha notato che Thayaht, in quella foto, fa per caso con le dita il gesto che sarebbe anni dopo diventato il saluto vulcaniano di Star Trek (andate a googlare l’immagine e guardate bene la mano sulla sinistra… da non crederci!).

Nell’illustrazione questo dettaglio pazzesco chiama l’attenzione flettendo il braccio dell’omino senza volto (come il terrificante Mussolini cyborg che Thayaht, convertito al fascismo prima di diventare ufologo, dipinse nel suo Il gran nocchiere), che rompe così gli angoli retti dell’utopica androginia misogina concepita dai futuristi: si fa spezzato, più fluido e obliquo, più fantascientifico e amichevole, senza perdere i minuziosi dettagli iconografici dell’originale.

Come potete vedere dal suo incantevole Instagram (@didierfalzone), Didier si esprime soprattutto attraverso il collage, esplorando la maschilità come fosse una stratigrafia archeologica da produrre sulla carta, in due ore invece che due millenni. Lavora facendo incontrare forme e sovrapponendole, con un gusto sia sobrio che rutilante, privo di connotazioni ovvie.

Mi pare di fare un gran complimento alla rubrica se dico che è l’artista ideale per darle un’identità visiva. Cose da maschi d’altronde vuole proprio incollare insieme cose che, in molti casi, si incontrano raramente sulle stesse pagine: oggetti e voci, epoche e media, cose personalissime e verità che paiono universali. La maschilità d’altronde, a differenza di come la concepivano i futuristi, è plurale: somiglia più a un collage che a un disegno.

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