Durante l’Eurovision appena consumatosi ho ricevuto numerosi messaggi a proposito delle espressioni mirabolanti e scostumate della maschilità che, a Torino, hanno riportato in Italia il rituale sperimentalismo mainstream di un evento ormai più camp e queer di qualsiasi Sanremo o Met Gala.

Il concorrente romeno, che pareva alquanto spagnolo, sfoggiava una cintura allucinante da cavaliere dello zodiaco, e il fantastico australiano, nel suo formidabile abito bianco da strega di Narnia al matrimonio dell’infanta imperatrice, cantava con in faccia un lampadario di cristallo da casa dei nonni. Ma ovviamente i più fichi erano gli ucraini vincitori, col piffero folk-tamarro sventolato in stile auleta urbano e l’indimenticabile cappello rosa, adatto solo a eccentriche vedove gattare e a virilissime star arcinote dell’hip hop slavo.

Vedendo il nostrano pubblico in visibilio all’agitarsi di quel cappelluccio, e di altri straordinari articoli d’abbigliamento – Mahmood e Blanco, neanche a dirlo, i meglio vestiti, con quel nude-look tempestato di zirconi che neanche il re degli gnomi di Labyrinth – mi sono domandato come la manifestazione possa essersi tenuta così nello stesso paese in cui un senatore si pronuncia contro le borsette da uomo e si giustificano le aggressioni sessuali in branco con un irricevibile «siamo maschi».

D’altro canto, mentre scrivo queste righe, vedo su Twitter gli stessi politici e partiti che hanno affossato il Ddl Zan celebrare la giornata internazionale contro l’omo-bi-transfobia con cartoline edificanti. Accendiamo un cero a Laura Pausini, papessa e sirena dell’italianità che non ci si vergogna di trasmettere in mondovisione.

Oltre alla clamorosa performance di Pausini, della finale di Eurovision mi ha particolarmente colpito l’esibizione trionfante di Mika. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse una star squisitamente europea – i miei amici e le mie amiche, in America, non lo conoscono – ma soprattutto di quanto il suo repertorio sia generalmente consacrato alla celebrazione dell’amore, dell’identità e della diversità.

In piedi sul pianoforte e poi sospeso su una specie di piedistallo, in un’acrobazia scenografica da intermezzo del Super Bowl, Mika si è a un certo punto tolto la giacca rivelando un invidiabile torso nudo velato da una specie di maglia trasparente coperta di toppe/tatuaggi. Giacché, come dicevo, mi sono messo a scrivere in un giorno dedicato al rifiuto della transfobia, ho dunque pensato che questa settimana dovessimo tornare al corpo dopo quasi due mesi di oggetti marziali e cavallereschi, ragionando sulla specificità maschile della seminudità.

Trovate il mio articolo sul petto nudo dei maschi, e più specificamente sui capezzoli, a questo link sul sito di Domani, e sabato lo troverete in edicola sul giornale di carta. È un pezzo un po’ autobiografico e un po’ erudito, con cronache didattiche e d’adolescenza mescolate a meditazioni estetiche e di cultura popolare.

Cerco, in particolare, di rispondere a un paio di domande. Qual è la differenza, se c’è, tra i capezzoli da maschi e quelli da femmina? Perché io, in quanto maschio, posso andare a correre a torso nudo nel parco mentre una donna deve coprirsi il petto anche in una scena di sesso al cinema, o sul suo profilo Instagram, pena la censura costernata di associazioni di consumatori e algoritmi di riconoscimento visivo? Come mai la parola stessa “capezzolo” mi fa ridere, mi suona buffa e imbarazzante? Non sarà che covo, nella rimozione freudiana di questo dettaglio anatomico così apparentemente superfluo, un germe di misoginia difficile da eradicare, anche quando ci si vuole pensare femministi, liberati e inclusivi?

Sono partito da un quadro rinascimentale al cui soggetto, pur nudo ed esibito, i miei studenti e le mie studentesse non sono riusciti ad attribuire un genere senza ispezionarne i capezzoli, e sono arrivato (via Janet Jackson, Aladdin, pop coreano e Michelangelo) all’allattamento, alle illusioni della biologia, e alle foto a torso nudo dei ragazzi trans che si rimirano nello specchio dopo la top surgery. E molto mi ha ispirato, sebbene telepaticamente come spesso ormai ci accade, Didier Falzone, che nel mentre stava realizzando il collage che vedete già qui nella newsletter.

Il protagonista è chiaramente San Sebastiano, che è anche personaggio centrale del mio articolo, ma è un Sebastiano che esibisce le cicatrici di un intervento di ricostruzione pettorale tra le architetture dechirichiane di uno sfondo rubato ad Antonello da Messina. Come Gabrielle d’Estrées pizzicata da una sua sorella nel celebre quadro manierista del Louvre, questo capelluto ignudo è visitato da un pizzico divino, michelangiolesco, che gli dà vita dal capezzolo invece che dal tradizionale dito proteso della “creazione dell’uomo”.

Dieci colori per animare un tema su cui, sospetto, Didier potrebbe generare altre dieci immagini, come anch’io potrei scrivere altre dieci pagine. Menomale che il formato del quotidiano ci trattiene, altrimenti sarebbe impossibile condurre queste scampagnate nell’immaginario di genere regolarmente, una volta la settimana (e siamo a 33!).

Alfred Church, illustrazione da Stories from the Greek Tragedians, 1879, da Wikipedia

Mi delizia appaiare, a questa escursione nelle carni, un nuovo contributo metallurgico che torna sugli scudi cui abbiamo dedicato una settimana il mese scorso. A scriverlo è stata Marta Cirello, attrice e assistente alla regia che cura laboratori teatrali nelle scuole.

Marta, tra uno spettacolo e l’altro, segue Cose da Maschi da diversi mesi, e me ne scrive ogni tanto su Instagram. Mi ha detto, leggendo appunto il numero sullo scudo, che stava rileggendo i Sette contro Tebe per una messa in scena che debutta proprio oggi, 18 maggio, al teatro greco-romano di Catania. È una tragedia che ama, che voleva proporre anche alle ragazze e ai ragazzi del suo laboratorio al Liceo Garibaldi di Palermo.

In concerto con loro, però, ha scelto invece Edipo Re, per riflettere teatralmente sul contagio e sulla pandemia dalla specola di quell’altro più noto dramma tebano. Dei Sette si sarebbe divertita particolarmente a proporre, nelle prove a scuola, una lettura marziale e materiale, essendosi resa conto di come certi oggetti – e in particolare gli scudi – recitino parti cruciali.

Trovate l’articolo di Marta Cirello a questo link. È un vero e proprio op-ed classico di reazione al numero 28 di questa rubrica, ma è anche un autonomo, brillante breve saggio sull’agentività delle cose nel teatro della guerra. Mi ha colpito in particolare come Marta abbia interrogato il testo di Eschilo per superare le divisioni tradizionali tra personaggi (maschi) e cose (da maschi) inanimate.

Più che all’immagine, pur cruciale, degli scudi, è al rumore che producono, alla loro voce, che la scena affida il compito di raccontare il conflitto. Notando questo, Marta ha ragionato su come la guerra in corso in Ucraina (anch’essa combattuta su un uscio, in uno spazio geopoliticamente liminare: una porta, come le sette su cui si combatté a Tebe) ci raggiunga spesso priva del suo suono, con incongrue musiche o commenti che trasformano il reportage in un film o in un alienante documentario istantaneo.

Penso che converrete con me, dopo aver letto l’articolo, sul fatto che chi studia teatro con Marta Cirello è assai fortunato. E che altrettanto fortunata è la produzione catanese dei Sette per cui Marta lavora come aiuto regista.

© Riproduzione riservata