Siamo arrivati alla trentesima settimana, oltre duecento giorni di Cose da maschi. E in queste quasi cinquemila ore di meditazione sul paradigma materiale che manifesta l’identità di genere in cui mi identifico, punteggiate da trenta articoli e da una ventina di interventi ospiti (nonché, ormai, di una dozzina di splendide immagini di Didier Falzone), mi pare di allontanarmi sempre più spesso dagli oggetti che in effetti i maschi di tutti i giorni adoperano per definirsi, e di addentrarmi invece, più volentieri, nella selva dei simboli, delle cose inconsuete ma paradigmatiche.

Toni Morrison, alla cui idea di “giocare al buio” (cioè di leggere la letteratura dei bianchi come letteratura – anche – sulla bianchezza, invece che come letteratura e basta, neutra rispetto a quella degli “altri”) questa rubrica deve molto, diceva di abitare i margini e di averli dichiarati centrali, aspettando lì che li raggiungessimo. Ragionare sulla maschilità dall’interno significa forse fare il contrario, e al contempo la stessa cosa: guardare il centro come fosse marginale, il familiare come fosse esotico. Mi pare che per obliterare culturalmente (ma anche materialmente) il patriarcato sia necessario imparare ad abitare, non ad abolire, la maschilità. E mi pare che sia significativo come, a detta dei contatori Instagram e a giudicare dalle risposte che ricevo per email, una grande maggioranza di chi legge queste lettere non sia maschio o maschio non si senta, pur interessandosi a come abitare la maschilità.

Per questa trentesima settimana vorrei cominciare celebrando il lavoro di una donna che ha molto a cuore il problema dell’abitabilità del maschile: Maria Luisa Frisa. Abbiamo già letto le sue formidabili parole sulla “verità vestimentaria” in un articolo sull’uomo Gucci e i suoi oggetti che aveva generosamente regalato a Cose da maschi qualche mese fa, e in questi giorni è tornata su Domani con un estratto dal suo libro Le forme della moda, appena uscito, che ho letto con rapimento nella vasca da bagno.

Quel che mi ha catturato, oltre alla leggibilissima chiarezza delle spiegazioni di Frisa, è la sua capacità di inanellare le citazioni più autorevoli e perfette per mostrare come il suo argomento di studio, critica e curatela (così spesso banalizzato, ridotto a storia del costume o sublimato in nuvole filosofiche che ignorano la realtà materiale ed egemonica del fenomeno) sia sommamente attuale e rinascimentale, strutturato e intersezionale, alla portata di chiunque eppure definito dalla propria inaccessibilità e ineffabilità.

Cosa significa stile? Cosa significa tendenza? Chi immagina le soluzioni visive che poi infettano come un contagio tutti i guardaroba del mondo, cambiando profondamente l’idea di maschio o di femmina che decenni di stereotipi avevano calcificato? Per farsi un’idea di come rispondere a queste domande vi consiglio di leggere Frisa, a partire dal capitolo sull’androginia da cui sono tratti i paragrafi usciti su Domani. Li trovate quiPer introdurli ne ho scritto uno anch’io, che trascrivo di seguito:

Quella di Maria Luisa Frisa, iconica e ironica curatrice e professoressa universitaria, è forse la penna più autorevole che oggi scriva, in Italia, di come i vestiti e i corpi, l’eleganza e il pensiero, l’abito, l’habitus, le abitudini e gli habitat si forgiano a vicenda, in un dialogo teorico e materiale che chiamiamo, semplificando un po’, «moda». Qualche anno fa ha condensato i suoi molti anni di studio e di pratica culturale della moda (corsi, mostre, cataloghi, collaborazioni ai più alti livelli dell’industria e dell’accademia) in un agile manuale interdisciplinare di finissima sintesi e chiarezza, dedicato agli otto macro-temi che fanno di questo fenomeno un’elevata arte di massa che riguarda tuttə: valore, tempo, spazio, professioni, ruoli artistici e d’influenza, lusso etico ed ecologico, visualizzazione e identità incarnata del design – e della comunicazione – degli abiti. Questo libro, Le forme della moda, esce ora in una nuova, aggiornatissima e più ampia edizione tascabile per le edizioni del Mulino, che pochi giorni fa Judith Clark ha presentato, con meritato clamore, al Museo del ‘900 di Mestre. La pagina che segue, estratta dall’ultimo capitolo del libro di Frisa, ci aiuta a capire come l’identità di genere – concetto emerso dal trans-femminsimo queer dei tardi anni Ottanta – sia evoluta a braccetto con le innovazioni del costume architettate da designer, stilisti e curator nel campo della moda, che già vent’anni prima di Gender Trouble di Judith Butler lanciava il fruttifero e malleabile paradigma dell’ “unisex”.

Illustrazione originale di Didier Falzone per Cose da maschi

Oltre a introdurre Frisa, questa settimana mi sono a messo a scrivere, dopo scudo e spada, di cavalli. Trovate il pezzo online su Domani a questo link, accessibile anche a chi non sottoscrive un abbonamento, e sabato lo troverete in edicola con il giornale. Al centro del pezzo c’è un’immagine che ho già commentato velocemente un paio di volte: quella di Putin a cavallo, a torso nudo, in una serie di foto propagandistiche che dovrebbero stare sulla copertina di qualsiasi libro sulla maschilità tossica.

L’ho messa in dialogo col Mussolini equestre e con Kim Jong Un, il leader supremo della Corea del Nord, che in uno scatto in montagna imita l’iconografia putiniana partecipando alla costruzione del mito neo-moderno dell’autocrate ormai sospeso tra squallide pinguedini trumpiane e salviniane fierezze d’altri tempi in contesti da cowboy. D’altro canto, e qui l’articolo si fa più interessante, la grammatica visuale di Putin è stata adottata identica anche da gente come Zac Efron e Justin Bieber, e ad ascoltarla con attenzione parla anche (forse soprattutto) di fragilità.

Prima di arrivare alle conclusioni sulla cura, sull’empatia e sull’affetto inter-specie e di là dal binario organico-inorganico, corroborate da Alessandro Magno, Aragorn, Pascoli, Star Wars e il mio motorino, ho però parlato soprattutto di cavalieri, delle armature dei sovrani di Svezia, dell’automobile del Gatsby di Fitzgerald, di Elizabeth (la regina dei tempi di Shakespeare e il film con Cate Blanchett) e di un museo che è comparso negli ultimi episodi de L’amica geniale. Insomma, come sempre, un guazzabuglio meditabondo, che mi auguro avrete la pazienza di leggere e discutere – magari con un ragazzo a cui potrebbe servire, come sarebbe servito a me a quattordici anni, sapere che a volte se si scende dal cavallo (o dal motorino) si vede meglio.

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