Quella di Maria Luisa Frisa, iconica e ironica curatrice e professoressa universitaria, è forse la penna più autorevole che oggi scriva, in Italia, di come i vestiti e i corpi, l’eleganza e il pensiero, l’abito, l’habitus, le abitudini e gli habitat si forgiano a vicenda, in un dialogo teorico e materiale che chiamiamo, semplificando un po’, «moda».

Qualche anno fa ha condensato i suoi molti anni di studio e di pratica culturale della moda (corsi, mostre, cataloghi, collaborazioni ai più alti livelli dell’industria e dell’accademia) in un agile manuale interdisciplinare di finissima sintesi e chiarezza, dedicato agli otto macro-temi che fanno di questo fenomeno un’elevata arte di massa che riguarda tuttə: valore, tempo, spazio, professioni, ruoli artistici e d’influenza, lusso etico ed ecologico, visualizzazione e identità incarnata del design—e della comunicazione—degli abiti.

Questo libro, Le forme della moda, esce ora in una nuova, aggiornatissima e più ampia edizione tascabile per le edizioni del Mulino, che pochi giorni fa Judith Clark ha presentato, con meritato clamore, al Museo del Novecento di Mestre. Il testo che segue, estratto dall’ultimo capitolo del libro di Frisa, ci aiuta a capire come l’identità di genere—concetto emerso dal trans-femminsimo queer dei tardi anni ’80—sia evoluta a braccetto con le innovazioni del costume architettate da designer, stilisti e curator nel campo della moda, che già vent’anni prima di Gender Trouble di Judith Butler lanciava il fruttifero e malleabile paradigma dell’«unisex». (Alessandro Giammei)


In questi ultimi anni la moda si è mossa con più determinazione, registrando le istanze della comunità Lgbtq+ che ripensa creativamente il sesso, il genere, le relazioni, influenzando il superamento degli stereotipi, e contemporaneamente, sottolineando come i territori della sessualità siano segnati dall’ambiguità, in quel movimento che è la ricerca dell’essenziale.

L’utopia di arrivare a una possibile rivoluzionaria sintesi dei generi nell’abbigliamento, la ricerca di una silhouette che possa seguire senza forzature il corpo maschile come quello femminile: si tratta del sogno di molti rispetto all’abito moderno, di tutte le utopie che hanno attraversato il secolo scorso. Gli abitanti dell’Utopia di Thomas More indossavano abiti tutti tagliati nello stesso modello.

Unisex

Il concetto di unisex non è sicuramente nuovo alla moda. Nel 1970 Rudi Gernreich con il suo Unisex Project proponeva una sorta di uniforme anonima: modello e modella entrambi depilati e rasati a zero con gli stessi outfit, dai bikini, alle tuniche, ai pantaloni. Abiti non più identificabili come maschili o femminili.

La tendenza all’uniformazione, spinta anche dalle richieste di emancipazione ed equalizzazione dei diritti tra uomini e donne, ha generato un trend che alcuni designer hanno adottato, rendendolo la propria firma. Spesso l’unisex ha coinciso con un generale minimalismo e purismo, nel design come nei materiali e negli accessori, rendendo così incerto il confine tra unisex e basic design.

La moda che cambia

Se l’unisex è stato registrato in molte collezioni di prêt-à-porter, uniformando comunque una idea di moda che, contemporaneamente, registra anche le pluralità e le differenze che attraversano il nostro tempo, diverso è il modo in cui è entrato nelle cerchie esclusive della couture (penso, per esempio, alla sfilata di Valentino a Venezia nel 2021 in cui alcuni modelli offrono un contrappunto di couture maschile nella sequenza degli abiti).

La moda contemporanea sperimenta un momento di cambiamento: in questa direzione procede la prima collezione di haute couture di Fendi disegnata da Kim Jones, ispirata all’Orlando di Virginia Woolf e alle atmosfere del Bloomsbury Group. In passerella abiti sintesi di elementi maschili e femminili, indossati da idoli il cui genere stereotipico è negato dallo styling.

La crisi

C’è sempre stato un territorio libero in cui alcuni capi di abbigliamento transitano, soprattutto in momenti delicati di passaggio, di crisi, come quello dell’adolescenza.

La crisi è un concetto positivo, una rottura necessaria per crescere, ma è un momento tumultuoso e difficile, pieno di domande, di rifiuti, di risposte mancate.

Il Quarto Sesso come «territorio estremo dell’adolescenza» (dal titolo della mostra curata nel 2003 da Raf Simons e Francesco Bonami alla stazione Leopolda di Firenze), come un clima «trepido e crudele», così definito da Lea Vergine sul Corriere della Sera, quello in cui si muovono gli adolescenti, non ancora padroni della propria identità, anzi divisi tra il polo ovattato e ignorante dell’infanzia e quello crudo e consapevole dell’età adulta, che spesso spinge all’autodistruzione.

Le icone di questo passaggio generazionale si sprecano, nel cinema come nella letteratura e nell’arte – Christiane F. e i ragazzi dello zoo di Berlino, Lolita, le vergini suicide di Jeffrey Eugenides e di Sofia Coppola, i kids di Larry Clark e Harmony Korine – e la moda un po’ segue e un po’ guida.

They

In questo senso, le immagini su cui riflettere per capire l’atmosfera che ha fatto degli anni Novanta la decade manifesto di una generazione incerta sono diverse: Kurt Cobain sulla copertina di «The Face» del settembre 1993 fotografato da David Sims con un abitino a fiorellini, fragile, disarmato, sexy, ma mai ridicolo; i pallidi adolescenti di Raf Simons; gli eterni giovani, taglienti e dannati vestiti di pelle e denim da Hedi Slimane prima per Dior Homme poi per Saint Laurent e infine per Celine; e oggi, i giovanissimi sicuri e orgogliosi della propria sessualità di Ludovic de Saint Sernin.

Maschile e femminile non sono solamente generi che identificano due fisicità e mentalità diverse, ma si intendono come attitudini al vestire, che non vedono più la divisione tra i sessi o le differenze ma mescolano le caratteristiche di entrambi arrivando a una nuova definizione di a-sex: un genere che, lungi dall’essere basico, mescola caratteri opposti, e veste un corpo che culturalmente perde gli attributi del genere stesso, di him e her e diventa they, loro.

Stile e libertà

Indya Moore, star delle serie Pose, ha collaborato con Tommy Hilfiger per una collezione gender free: «Tutti i capi sono stati reimmaginati per adattarsi a molteplici espressioni di genere, con spalle allargate e silhouette adattabili». 

Oggi le persone sembrano più libere di muoversi tra le offerte di un grande magazzino o di un negozio e cercare ciò che è più conforme a una propria idea, e questo anche grazie alla presenza mediatica di personalità che hanno sdoganato un certo tipo di libertà nella formazione del proprio stile: è il caso, per esempio, di performer come Billy Porter e Harry Styles e, in Italia, Damiano David dei Måneskin e Achille Lauro.

New bohemians

Sin dal suo inizio come direttore creativo di Gucci, il lavoro di Alessandro Michele è insieme una negazione dell’identità «erotica» del marchio, nella forma in cui eravamo abituati a considerarla, e una sua evoluzione. Una sessualità in transito di una generazione astratta e pensierosa.

Le prime immagini di Glen Luchford per Gucci sono struggenti nella loro intensità emotiva: la camicia leggera, trasparente copre corpi lattiginosi in cui le sessualità si fondono senza clamore.

Nel brevissimo film per la campagna autunno/inverno 2015-2016, il manifesto della poetica di Michele, sempre di Luchford, vediamo ragazzi e ragazze con le loro belle facce naturali intenti a guardarsi e a guardare, in un percorso che li porta dalle viscere della metropolitana al mare.

New bohemians negli spazi metropolitani dell’attesa e del viaggio. Le fisicità, impronta di intenzioni e speranze, che Michele ha in mente, e che in questi anni di direzione creativa ha via via presentato nelle diverse occasioni sono una dichirazione di dissidenza.

Dissidenti

«Non sono un uomo. Non sono una donna. Non sono eterossessuale. Non sono omossessuale. Non sono nemmeno bisessuale. Sono un dissidente del sistema sesso-genere» scrive Paul B. Preciado, che Alessandro Michele ha voluto a dissertare da un vecchio televisore, nel film Ouverture of something that never ended girato con Gus Van Sant in epoca di pandemia.

C’è la consapevolezza diffusa che se la moda progetta i corpi ha anche la responsabilità di esprimere quella complessità che plasma gli immaginari. L’abito ha una funzione essenziale sia in rapporto all’identità che in rapporto al desiderio.

Oggi, la sfida di alcuni autori – tra cui spicca, per intensità visionaria, Francesco Risso per Marni – è quella di riuscire a far leva sulla capacità trasformativa della moda, sulla valorizzazione dell’elemento di unicità. La cifra di una differenza intesa come interrogazione permanente, come apertura, creazione e invenzione.

Non solo abiti, allora, ma corpi che abitano vestiti. Personalità che si appropriano dell’oggetto abito e lasciano la loro impronta. Diventa evidente che sono soprattutto quei corpi, apparentemente fuori luogo, con la loro esperienza, a definire in modo indelebile le identità che attraversano e definiscono non solo le pratiche e le poetiche del fashion design ma anche e soprattutto le narrative del nostro tempo.


Maria Luisa Frisa è autrice del libro Le forme della moda, edito, ora in una nuova edizione, da ilMulino

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