Nel fitto delle foreste tropicali prolifera un fungo parassitoide le cui spore infettano un certo tipo di grossa formica, raggiungendone il cervello e prendendone il controllo. Essa, abitata dal fungo, è condotta a migrare verso i luoghi della foresta in cui il clima risulta più adatto allo sviluppo del fungo che la possiede. Una roba terrificante. Zerocalcare ne ha tratto una vignetta anni fa.

Quando fa ciò che non dovrebbe fare (tipo mollare una pacca sul culo a una giornalista in diretta) un uomo qualunque, altrimenti magari fiero del proprio dominio di sé, finisce spesso per dipingersi come la formica zombie dell’Amazzonia: in preda a un estraneo micelio momentaneamente responsabile del suo comportamento. Uno dei nomi che si danno tipicamente a tale demone è “testosterone”.

Che ho fatto di male?

Il testosterone è coprotagonista implicito di numerose narrazioni della maschilità, un deus ex machina più o meno chiaramente evocato da chi racconta gli uomini.

Torna in questi giorni alla ribalta, con nuovi episodi inediti, una delle serie che ha portato alla piena maturità (e alle sue estreme conseguenze) il tema centrale dell’età d’oro della televisione: l’amabile antieroe, simpatico e sociopatico, capace di rivelarci in astratto e in concreto l’immarcescibile fascino che ancora esercitano su di noi le strutture criminali, patriarcali e di classe in cui radicano tutte le violenze e le ingiustizie che subiamo o perpetriamo.

Si chiama Dexter e l’eponimo protagonista, a differenza dei vari Tony Soprano, Don Draper, Walter White, Pietro Savastano (e ora Logan Roy, Oh Il-nam, Mike Ehrmantraut, eccetera), ha la particolarità di non essere un imbolsito padre di famiglia – almeno all’inizio.

Somiglia, in questo, al Jimmy McNulty del capolavoro televisivo The Wire, poliziotto arrogantello e alcolista sempre più eticamente reprensibile di stagione in stagione, che parte già divorziato e manca perciò di giustificare ogni sua nefandezza col mendace ritornello comune a tutti gli altri: «I do it for my family». Il suo, di ritornello, è più da formica zombie: «What the fuck did I do?».

L’oscuro passeggero

Dexter sa sempre, a differenza di McNulty, che cosa ha fatto di male, perché è letteralmente un serial killer. Invece di rimuovere o minimizzare, dunque, razionalizza: orienta l’istinto omicida, di cui ritiene di non potersi liberare, su altri assassini meno disciplinati, che altrimenti sfuggirebbero alla legge a causa di cavilli ed errori o lentezze procedurali.

Diventa di fatto un supereroe, se non una figura Christi che si sobbarca della responsabilità e del peccato supremo di giustiziare laddove la giustizia penale non sa o non può arrivare. Il suo superpotere è proprio l’impulso a uccidere, dipinto come una dipendenza irrefrenabile e addirittura erotica, ormonale appunto.

Istruito in adolescenza dal padre adottivo, commissario della squadra omicidi che riconosce in lui il germe del male (tipo Albus Silente con Voldemort bambino), Dexter tratta tale potere alla stregua di un fungo amazzonico: un parassita di cui, a differenza delle ignare formiche o dei mostri ordinari che si aggirano inarrestabili ammazzando per diporto, lui è consapevole. Ci convive. Lo chiama, con una metafora automobilistica, «l’oscuro passeggero»: un co-pilota con cui negoziare le proprie rotte.

La serie, romanzando i già romanzeschi romanzi gialli da cui è tratta, esplora in analessi le origini di questo ospite sgradito, individuandole, prevedibilmente, nella pubertà del protagonista. Se mostri non si nasce, ci si diventa (come Voldemort appunto) in quel passaggio lì: quando l’infanzia è irrevocabilmente interrotta dalla maturazione delle ghiandole che producono gli ormoni, oscuri passeggeri alla guida del corpo maschile.

Schiavi delle gonadi

Che esistesse in effetti un’invisibile sostanza improvvisamente capace, a una certa età, di trasformare bambini efebici e innocenti, generalmente difficili da distinguere dalle bambine, nella più sinistra e specifica creatura che chiamiamo maschio lo abbiamo sempre sospettato, a tutte le latitudini. Basta osservare come le bestie castrate perdano esattamente le caratteristiche che associamo alla maschilità, facendosi più pingui e mansuete. E non solo le bestie.

La storia della castrazione, ben più antica di quella dell’endocrinologia, è legatissima a quella della schiavitù: Liutprando di Cremona, storico della corte bizantina altomedievale, ci illustra come Verdun fosse diventata un nodo nevralgico della tratta di persone verso la Spagna musulmana perché lì i mercanti si erano specializzati nell’evirare e addestrare gli uomini che vendevano, rendendoli più governabili e affidabili.

Tagliando l’approvvigionamento di testosterone, che Ernst Laqueur isolò chimicamente per certo nei testicoli solo nel 1935, da secoli gli schiavisti ritengono di sostituirsi a esso nel controllo degli uomini che soggiogano e di cui fanno commercio.

L’idea è anche che a un altro maschio si possano serenamente affidare in accesso o cura i propri beni, le proprie concubine, la propria famiglia e piantagione solo se lo si è prima privato di una maschilità sua, essenziale, cui rendere conto. Giacché, padrone di sé, il maschio non può che rispondere anche all’ormone che lo fa forte, roco e aggressivo, il fisiologico autore occulto delle sue malefatte.

La vendetta dell’eunuco

Pur senza aver avuto a lungo un nome per quell’oscuro e autoritario passeggero, la letteratura di tutti i tempi ha dipinto diversamente gli uomini che non l’hanno mai incontrato, come i castrati dalle voci angeliche, rispetto agli eunuchi postpuberali che invece sono stati sottratti al suo controllo.

Anche in Game of Thrones l’esercito degli immacolati, mutilati da bambini, rimane spasmodicamente fedele alla regina che lo ha liberato, mentre Lord Varys, evirato in gioventù da un necromante (al fine di evocare un demonio dall’olocausto della sua virilità), non è fedele a nessuno. Proprio perché privo di testosterone, da uomo libero Varys è indecifrabile e imprevedibile.

Non si capisce bene nell’adattamento televisivo, ma nei libri è un prodigioso trasformista capace di impersonare chiunque. È lucido, calcolatore, efficace, apparentemente privo di vizi su cui fare leva: forse il personaggio che più di tutti porta avanti la trama intenzionalmente – e di certo quello con la più distinta e anacronistica coscienza di classe.

La sua volontà è solo sua ma, ironicamente, i vari sovrani che si susseguono sul trono di spade (sedile che lapalissianamente allude all’ansia di castrazione) non lo ritengono una minaccia perché castrato.

Una teoria evoluzionistica per la calvizie giovanile, causata dalla trasformazione chimica del testosterone nel suo metabolita diidrotestosterone in largo anticipo rispetto al normale declino senile di capelli e ormoni, è che fosse conveniente per alcuni nostri antenati apparire anziani, e dunque non competitivi agli occhi dei maschi dominanti: ironicamente rassicuranti come Varys.

Sembrare meno governati dal testosterone, più saggi e lontani dalla pubertà, capaci di cura e incapaci di violenze estreme (cioè meno maschi?) avrebbe offerto un vantaggio riproduttivo a tali antenati. A noialtri pelati piace avallare questa ipotesi darwinista.

Il potere fondamentale

Quasi tutti i difetti immaginabili di una donna si riducono facilmente all’aggettivo misogino “ormonale”. Di un uomo violento, ipercompetitivo, aggressivo e molesto non si dice mai che è “ormonale”, ma si allude comunque ai suoi ormoni quando si dice che “ha le palle”.

È questo infine il potere cruciale del testosterone, ben più profondo della giustificazione fisiologica che offre (so’ ragazzi) a comportamenti altrimenti inaccettabili: il superpotere di Dexter, incontrollabile ma infine adoperabile per il meglio.

Quando la terapista di Tony Soprano viene picchiata e violentata, e non ottiene alcuna giustizia nonostante il marito avvocato e l’immediata denuncia, comincia a sentirsi al sicuro (nei sogni freudiani e nella vita) al cospetto del paziente mafioso che prima la intimidiva, nonostante sappia che sia un criminale violento e senza scrupoli (anzi, proprio perché lo sa).

È la stessa dinamica dell’incipit del Padrino, in cui l’onesto e anziano padre di una giovane donna violentata e seviziata, prima orgoglioso di non essersi mai mischiato con la malavita, finisce per rivolgersi a Vito Corleone per ottenere dai suoi sgherri una vendetta inottenibile né da sé né dal sistema legale – che, a differenza di quello criminale, non sa di essere (o finge di non essere) patriarcale.

La figlia stessa di don Vito conosce bene questa realtà, e dopo anni di violenza domestica si fa picchiare vistosamente apposta per istigare nel fratello iper-maschile una reazione al testosterone.

Se questo passeggero biochimico non avesse una funzione tanto chiara e utile nell’economia dei rapporti umani, non ci sarebbe bisogno di pensarlo oscuro o tossico, da premiare o da castrare. Invece di un fungo sarebbe un fiore gagliardo, buono per dar bene testate a un pallone invece che al cellulare di una giornalista (per dire).

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