Il 25 marzo su Rivista Studio è apparso un bellissimo articolo sui vestiti degli uomini che propagandano o combattono la guerra in Ucraina. Sono assai grato a Silvia Schirinzi, che lo ha scritto, non solo perché molto generosamente vi cita Cose da maschi, ma soprattutto perché mi ha fatto conoscere il profilo @kyivpride che, su Instagram, ha pubblicato alcune fotografie di ragazzi queer coinvolti nel conflitto, riportando citazioni da loro interviste.

Mi ha colpito in particolare la doppia foto di un giovanotto in passamontagna, con e senza l’uniforme. Quelle sue gambette che finiscono nel calzino di spugna, quelle braccia sottili con cui cinge le ginocchia, mi hanno fatto pensare a quanto pompato, gonfio di muscoli e ipertrofico sia il corpo maschile che tendiamo a immaginare associato all’eroismo, alle battaglie, alla difesa di ciò che vale la pena difendere.

Chi legge queste lettere settimanali si aspetterà forse, a questo punto, un mio commento sul ceffone che Will Smith ha rifilato a Chris Rock, per una battuta sull’alopecia di sua moglie Jada Pinkett, durante la cerimonia degli oscar questa settimana. Le cose da maschi si sprecano: lo schiaffo e il pugno naturalmente, che i futuristi glorificavano nel loro manifesto, e poi l’alopecia stessa, l’umorismo sul corpo e sulla malattia ai danni di una donna, la riduzione di quella donna al suo ruolo di moglie senza agentività, nonché la difesa, appunto, di quel ruolo da parte di una maschilità muscolare che si spiega, in lacrime, come protettiva.

Su questo episodio non ho tuttavia nulla da spiegare, e molto invece da studiare; rimando dunque a più utili riflessioni – quelle su Twitter di Bernice King ad esempio, che con la sua solita saggia semplicità aiuta a leggere non solo l’evento ma anche i commenti che se ne fanno. Dal canto mio, vorrei soffermarmi su un diverso maschio che ha calcato il tappeto rosso a Los Angeles: Timothée Chalamet.

Chalamet è andato agli oscar con un completo della collezione femminile di Louis Vuitton, invertendo il più classico dei giochi di genere che la moda consente. Elegantissimo e chiaramente a suo agio, come se quel completo da donna fosse stato cucito apposta per il suo corpo di maschio desiderato da milioni di fan a ogni latitudine, si è presentato a teatro senza maglia né camicia. Sotto la giacca esibiva il suo torace sottile, nervoso ma piatto, privo dei turgori e gonfiori di pettorali e bicipiti tipico della star hollywoodiana del suo sesso. Quando, per uno sketch, l’hanno fatto salire sul palco assieme al palestratissimo Jason Momoa (Aquaman, Khal Drogo, nonché mentore guerriero di Chalamet nel visionario e premiatissimo Dune) sembravano due creature di due specie diverse.

Ecco, Timothée Chalamet a torso nudo agli oscar e il soldato ucraino in mutande su Instagram mi hanno fatto riflettere, per contrasto, su quell’ideale di bellezza violento e tumido che mette il valore del corpo maschile in proporzione al volume dei muscoli.

Nell’articolo di questa settimana, che trovate qui su Domani online e che sabato uscirà in edicola nelle pagine culturali del giornale, rifletto sul momento in cui i modelli un po’ efebici e sottili che trovavo al cinema da ragazzino hanno cominciato a gonfiarsi: a quando persino Harry Potter è diventato un atleta dall’inarrivabile standard muscolare cui corrispondere.

C’è una differenza tra i corpi platonici dei culturisti tanto raccontati nei romanzi di Walter Siti, o dei sovrumani maschi di certi fumetti (e di film e cartoni tratti da quei fumetti), e quelli di modelli che dovrebbero invece somigliare ai maschi di tutti i giorni, realistici, imitabili.

Ma c’è anche un punto di continuità, che mi fa pensare allo sguardo dei pittori del Seicento sulle braccia e sui toraci dei contadini che ritraevano nella pittura di genere lombarda. Lo stesso sguardo vuole le donne innaturalmente piccole e gli uomini innaturalmente grossi, e dunque l’articolo parte dallo spettro dell’androginia, ragionando su Tancredi e Clorinda in parallelo con le performance delle drag queen, su Brienne di Tarth di Game of Thrones e sull’opera barocca di Claudio Monteverdi, su Twilight, sull’Achille di Brad Pitt, e sull’Ercole della Disney.

A Ercole è evidentemente dedicata la bellissima illustrazione di Didier Falzone, che questa settimana va alla radice di tutti gli immaginari muscolari occidentali adornando l’affaticato semidio col suo tipico vello di leone. Tuttavia, in questo collage che lavora tanto con gli strati quanto con i colori, quell’intimidente trofeo diventa un accessorio di moda: un abbraccio alla nudità a riposo dell’eroe, che quasi lo porta sulle spalle come un boa di struzzo, o come l’innocua capretta di un pastore da presepe. Ercole e Timothée Chalamet sono seminudi allo stesso modo, anche se i loro corpi sono agli antipodi dello spettro della performance, anche biologica e atletica, del maschile.

Come saggiamente ci ricordano, citando Nietzsche e Adorno, Maura Gancitano e Andrea Colamedici sul profilo Instagram del collettivo filosofico Tlon, «parlare della guerra fa fare i like».

Il senso di inadeguatezza e di smarrimento che ho cercato di raccontare negli ultimi numeri di questa newsletter, dedicati a oggetti maschili stranamente in orbita attorno al conflitto materialissimo che si consuma in Ucraina (i fiori, il podio, i tavoli e le scrivanie), impone a questo punto di non insistere a citare poesie. Di non proporre più, come ironicamente ha apostrofato la rubrica un certo “Laterizio Perigli” sul Facebook di Domani, «il supplemento Semiologia della Settimana Enigmistica» per leggere le posture, i simboli e le cose che i protagonisti di questa guerra mettono in campo per combatterla anche mediaticamente. O meglio, di continuare magari a farlo senza imprigionare lo sforzo in una contingenza talmente totalizzante da ridicolizzare qualsiasi esercizio intellettuale.

Proporrei insomma, dopo questo mese di cose da maschi guerresche – oggi chiuso sui muscoli – di passare ad archetipi trans-storici, in una galassia adiacente a quella fin qui esplorata, per sottrarci persino all’ipotesi di un, pur involontario, war-porn semiologico.

In aprile, che quest’anno è per la prima volta ufficialmente l’Lgbtq+ History Month Italia, vorrei perciò indagare un paradigma vicino di casa di quello esplorato in marzo: il paradigma del cavalleresco, con le sue armi e armature, cavalcature e bardature che trasfigurano in spade laser e motorini, scudi antisommossa e copricapi da comando. Nel frattempo, come già annunciato, la rubrica ospiterà nuovi contributi di altre firme sul femminismo dei maschi, sull’arte povera, sui videogiochi e su diverse idee nate da conversazioni per email o sui social nelle scorse settimane.

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