Se grandi magazzini, negozi e persino giornali non avessero iniziato da qualche anno a commercializzare tra le decorazioni e i prodotti prenatalizi anche i calendari dell’Avvento, quanti si accorgerebbero di questo breve tempo liturgico che precede il Natale? Certo, sono soprattutto i bambini a contare con crescente impazienza i giorni che li separano dalla festa più attesa dell’anno.
In questi calendari di dicembre – detti per questo anche «pazientini» – ogni giorno viene così aperta una finestrella che scopre figure coloratissime, fino appunto ad arrivare a Natale. Ma, a riprova che aspettare con pazienza è sempre più difficile, le piccole finestre nascondono dolci o minuscoli regali quotidiani.

Le origini dei simboli

L’usanza è dunque quasi del tutto secolarizzata e assorbita nella pervasiva cultura del consumo, ma le sue origini sono religiose, radicate nel protestantesimo. Fu infatti un teologo evangelico tedesco, Johann Hinrich Wichern, a introdurla per la prima volta nel 1839 pensando ai bimbi di un orfanotrofio che aveva fondato ad Amburgo: ogni giorno dell’Avvento sulla ruota di un carro veniva accesa una piccola candela, che la domenica era più grande.

Iniziarono così a diffondersi, dapprima nel mondo protestante, due modi di accompagnare l’attesa del Natale. Da una parte, con questi calendari quotidiani, che assunsero presto altre forme, spesso preparati in casa e contraddistinti appunto da finestrelle che si aprivano su un cartone decorato, come nei Buddenbrook racconta Thomas Mann. Dall’altra, con la corona dell’Avvento, che più tardi è stata largamente adottata anche nel culto cattolico ed è composta di quattro ceri.

Spesso il colore delle candele è quello della liturgia: viola (di frequente trasformato in rosso) e rosa per la terza domenica, detta anticamente Gaudete. Il nome deriva dalla prima parola del canto latino che introduce la liturgia di quel giorno ed è preso da una delle lettere autentiche di san Paolo, quella ai Filippesi: «Rallegratevi nel Signore, sempre. Di nuovo lo dico, rallegratevi. Il Signore è vicino». E dunque l’attesa del suo ritorno – anche alla fine dei tempi – sta per compiersi.

Le differenze

Nel rito romano il tempo d’Avvento, che apre l’anno, è scandito dalle quattro domeniche che precedono il Natale, mentre in oriente – e nel rito ambrosiano, che conserva usi liturgici orientali – il periodo è più lungo, iniziando già a metà novembre e comprendendo sei domeniche, quasi come la Quaresima. Un tempo simile per alcuni aspetti a quello quaresimale: digiuno e sobrietà, attualmente quasi abbandonati, accompagnano dunque questa attesa di Cristo.

È infatti l’attesa, sottolineata dai tanti calendari e dalle corone che vengono accese, a contraddistinguere questo tempo della «venuta» (in latino adventus). «Che cosa attendiamo propriamente nell’Avvento? La prima venuta di Cristo? Essa sta dietro di noi. La sua seconda venuta? Noi la temiamo, non la desideriamo» rispondeva mezzo secolo fa Joseph Ratzinger in uno dei brani che, come in un breviario (Toccati dall’invisibile, Queriniana), accompagnano ogni giorno dell’anno.

E il Natale? «L’attesa della festa da evento religioso è diventata un fatto commerciale, che poi viene sostituito da un altro» constatava ancora il futuro papa: «Pare così che il cristiano non attenda nulla e che la speranza cristiana sia una parola vuota e proprio per questo segua la legge del vuoto, cioè si lasci riempire da altre speranze».

Presente e futuro

Vent’anni prima della riflessione di Ratzinger, un suo collega più anziano, il gesuita Karl Rahner, aveva pubblicato delle meditazioni sull’anno liturgico – per il loro successo poi in parte registrate su dischi (ovviamente di vinile) – e dell’Avvento sottolineava «uno strano intricarsi di presente e di futuro, di esistenza e di non esistenza, di possesso e di attesa».
Questo periodo, «che non è più l’autunno, ma che non è ancora l’inverno», è infatti propizio per vivere la fede con una maggiore intensità e interiorizzazione.

I cambiamenti stagionali nelle ultime settimane dell’anno invitano infatti a rientrare in sé stessi, osservava l’influente teologo. «Il mondo diviene più calmo. Tutte le cose intorno a noi perdono il loro colore e prendono dei toni pallidi. Si comincia a rabbrividire. Si è meno accaparrati dal caleidoscopio dei propri affari e dalla confusione assordante del mondo esterno».
Si tende così a raccogliersi, finendo per avvertire, delusi e melanconici, il trascorrere inesorabile del tempo.

Ma «perché il ciclo disperante della nascita e della morte s’immobilizzi sulla vera realtà» basta poco, concludeva Rahner. E cioè semplicemente «credere a questo avvento di Dio che ha fatto irruzione nel nostro tempo, in altre parole sopportare con pazienza l’artiglio amaro e duro di questo tempo, e il suo potere di morte, rifiutando di credere che avrebbe l’ultima parola, quella della negazione e del nulla».
È così che si sceglie «la gioia dell’Avvento». Allora, nel cuore degli uomini entra «l’Avvento in persona», che è «lo stesso Signore, già venuto nel tempo della nostra carne per riscattarlo».

Nel «santuario interiore»

Oggi, altre riflessioni su «Avvento e Natale di un’epoca inquieta», quella dei nostri giorni, giungono da un pensatore ceco, Tomáš Halík, prete cattolico, esponente della resistenza al regime comunista, amico per quasi quarant’anni di Václav Havel e poi suo consigliere.
Il recentissimo piccolo libro di Halík (Si destano gli angeli) – edito da Vita e Pensiero come altri quattro (tra cui Pomeriggio del cristianesimo, considerato il suo più importante) – è dedicato «agli eroici difensori dell’Ucraina libera dall’aggressione russa» e raccoglie le sue omelie degli ultimi anni per questo tempo liturgico, in parte trasmesse durante la pandemia.

Il titolo del piccolo libro è ispirato a un verso del poeta e pittore Bohuslav Reynek per la quarta domenica d’Avvento, e il risveglio degli angeli – a contrasto con le miserie umane – suggerisce ad Halík il ricordo di una stagione entusiasmante, quando nel 1989 la sera prima della vigilia di Natale accompagnò dall’amico Havel il vescovo Jaroslav Škarvada, al suo ritorno dall’esilio a Roma: «Proprio da quella conversazione, avvenuta alcuni giorni prima dell’elezione presidenziale, nacque l’idea di un’occasione importante, la prima visita di un pontefice nella storia ceca», compiuta quattro mesi più tardi da Giovanni Paolo II.

Ma se in quello straordinario 1989 «l’Avvento sembrò l’attesa gioiosa della celebrazione ormai prossima per la rinascita della libertà e della democrazia nella nostra terra», la scomparsa di Havel – «oggi si è destato anche l’angelo della morte» – in un’altra quarta domenica d’Avvento, nel 2011, segnò la fine di un’epoca di speranza. «Non vediamo diffondersi nella società freddo pragmatismo, cinismo e maleducazione?» si chiede Halík.

E oggi, di fronte alle tenebre contemporanee, «se la Russia riuscisse a piegare la resistenza dell’Ucraina e il mondo ne potesse solamente prendere atto, significherebbe incoraggiare tutti i dittatori e gli aggressori del pianeta e gettare enorme discredito sull’occidente e i suoi tanto declamati valori» scrive Halík.
Che – grazie alla propria storia personale di resistente durante l’oppressione totalitaria in Cecoslovacchia – non si fa illusioni ed esprime un punto di vista realistico e drammatico del conflitto.

In queste omelie del tempo di Avvento e di Natale il confronto con la storia e con la cultura contemporanee è costante.
Così, «dopo una perdurante crisi delle religioni tradizionali e delle certezze metafisiche, si è giunti al collasso delle certezze dell’umanesimo secolare e della fiducia moderna nell’onnipotenza del progresso tecnico-scientifico», sbriciolato dalla pandemia e dalle guerre.
Resta – Halík ne è convinto – la risposta dei mistici. Perché «solo chi dalla distrazione della quotidianità è disceso nel santuario interiore della propria vita può incontrare veramente il Dio vivente».

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