Adriana Asti era un’artista fuori dal tempo. Non solo dal suo, ma anche dal nostro. Questa è forse la definizione più precisa che riesco a restituire di lei, ora che, ad anni di distanza dal nostro primo incontro, mi accorgo che la sua unicità continua a imporsi con la stessa forza di allora.

Quando nel 2023 (dopo trent’anni esatti dalla messa in scena dell’Ottobre 1993 che valse il Premio Duse per l’interpretazione ad Adriana) sono tornata a lavorare con un’altra attrice, Marina Rocco, a La Maria Brasca di Giovanni Testori – un personaggio che avevamo ricreato insieme – mi sono sorpresa nel constatare che lei era ancora lì. Non in senso nostalgico o memoriale, ma come modello vivo e irripetibile. Dire «moderna» non basta: è una parola che le sta stretta, insufficiente a definire ciò che di lei sfuggiva e ancora sfugge. Bisogna dire «oltre». Adriana era ed è ancora un «oltre»: una qualità che non si lascia catturare, e che io in queste note vorrei provare a inseguire, per chi leggerà e vorrà avvicinarsi a quella sua irriducibile singolarità.

Non so dire da dove nascesse questo suo «oltre» forse dal suo mondo interiore, o dalla cultura che aveva respirato, dalle persone che aveva frequentato. Le serate trascorse a parlare, anche solo del più e del meno, con intellettuali come Elsa Morante, Pasolini o Susan Sontag – per citarne solo alcuni – non si trattava di conversazioni qualsiasi, erano incontri di pensiero, erano sensibilità che si influenzavano a vicenda. E lei, pur restando sempre se stessa, assorbiva e restituiva con naturalezza quel fermento intellettuale. Sicuramente anche aver lavorato giovanissima con giganti come Luchino Visconti o Luis Buñuel - figure che non potevano non lasciare un segno - deve in qualche modo aver influito in quel suo modo di essere. O forse l’aver vissuto amori e compagni che a loro volta erano pieni di talento ed estro, e che con lei intrecciavano un tessuto di vita e di arte inseparabili.

E ancora: non posso dimenticare gli anni di psicanalisi con Cesare Musatti, che la segnò profondamente. Un rapporto intenso che generò addirittura scambi creativi: lui scrisse per lei una commedia, e così fece lei per lui con Caro professore.

Ma forse più semplicemente quel suo ‘oltre’ nasceva da una naturale originalità, quella stravaganza di pensiero che – come lei stessa raccontava nelle sue memorie – l’accompagnava fin da bambina, quando già osservava il mondo da una prospettiva leggermente sghemba, sempre sorprendente, mai banale.

In lei convivevano l’intellettuale raffinata, capace di muoversi con disinvoltura tra i grandi protagonisti della cultura del Novecento, e una sensibilità ‘altra’: la capacità di guardare la realtà svelandone i paradossi e l’assurdità, di intendere le cose della vita in un modo tutto suo che la rendeva inafferrabile: ogni volta che sembravi avvicinarti a lei, al suo ‘mistero’ scoprivi un ostacolo, un inciampo, un velo che lei stessa sembrava aver posto lì, quasi per difendere una zona inviolabile di sé.

Persino nella sua scrittura ( Adriana scriveva molto bene), anche lì, nonostante la vicinanza e il senso di intimità che la scrittura può dare, permane quella sua tendenza a mantenere le distanze. Nei racconti che ci ha lasciato è possibile trovare molte chiavi per comprenderla, o meglio, per tentare di avvicinarsi a lei. La scrittura era il suo terreno di libertà, poteva abbandonarsi a pensieri fulminanti, a immagini improvvise e a ricordi taglienti. Non c’è compiacimento nelle sue parole, ma un continuo desiderio di spiazzare, di ribaltare prospettive, di sorprendere. Leggendola si ritrovano i lampi della sua recitazione: la stessa capacità di lasciare improvvisamente senza fiato, con una battuta, con un’intuizione, con uno scarto ironico.

Ma nei suoi testi, come sul palcoscenico, restava sempre un margine d’ombra, una terra inesplorata che lei custodiva con ostinazione. Adriana non si concedeva mai del tutto, non si lasciava catturare né dai ricordi né dalla narrazione. Forse era proprio questo a renderla irresistibile: la sensazione che, dietro ogni gesto e ogni parola, ci fosse sempre qualcosa di taciuto, un segreto da scoprire, custodito come un giardino nascosto; un confine inviolabile.

Ecco Adriana era questo: un’intreccio di esperienze molteplici, la cultura, le frequentazioni, i maestri, gli amori, la psicanalisi, le memorie dell’infanzia. Ma, era anche di più, aveva una disposizione interiore che non ha eguali e la capacità di non appartenere pienamente né al suo presente né al nostro, eppure continuare ad abitarli entrambi, lasciando in ognuno di noi la traccia di qualcosa di ineffabile, di un «oltre» che non ha confini, che continua a parlarci e a rinnovarsi, che non smette di sorprenderci.

È questo «oltre» che spero di aver, almeno in parte, rievocato e trattenuto in queste mie note per ricordare Adriana Asti, per restituire un piccolo seme di quella sua rigogliosa e irripetibile unicità.


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