Quella volta, in un ristorante di Trastevere, quando ti scandalizzasti perché non capivo niente di vini. Quella volta che, a Città del Messico, dove eravamo per una fiera dei libri, scopristi il mio segno zodiacale – lo stesso di una stronza, evocavi, che ti aveva fatto molto soffrire – e mi maltrattasti una sera intera come fossi io la colpevole e il giorno dopo, a visitare la casa di Frida Khalo, mi mandasti da sola, per punizione. Tanto di Frida Khalo avevi già scritto vedendone i quadri in fotografia (nottetempo 2008).

Quella volta che ti prendesti una cotta per Patti Pravo.  

Quella volta che in Umbria, in campagna da me, trovammo un gatto minuscolo nel cofano della macchina. Portiamolo a casa, dicesti. Passasti la notte stesa per terra col micio, anzi micia, occhi negli occhi, chiari tutte e due. La mattina dopo, ti vedo pronta a ripartire. E il gatto? domando. Ma ti sembro tipo da saper allevare un cucciolo? Qui da te starà benissimo con gli altri gatti e i tuoi cani…

Sì, è rimasta con me, si chiama Ginger, e dico a tutti che è «la gatta di Patrizia Cavalli» raccontando quella vecchia storia.

Ora ripasso i tuoi versi, quei versi che richiamano Sandro Penna, in cui risuona Petrarca, ma che sono inconfondibilmente Patrizia Cavalli: «Ah, smetti sedia di esser così sedia! / E voi, libri, non siate così libri!...», «Se ora tu bussassi alla mia porta / e ti togliessi gli occhiali…», «Mi sembra di volere, ma che cos’è che voglio?...» «Cado e ricado, inciampo e cado, mi alzo / e poi ricado / le ricadute sono / la mia specialità…». «L’aria è di tutti, non è di tutti l’aria?...». Quella capacità di essere classica e moderna, meditando leggera su gioia e dolore, vagabondando pensosa fra i sentimenti, nella concretezza dei corpi in una «bella giornata di novembre», sognando «un giro inconcludente in bicicletta / e labbra sfaccendate da baciare».

Sono vecchie raccolte di Einaudi (Poesie 1974-1992; Pigre divinità e pigra sorte, 2006; Datura, 2013) in cui ritrovo la tua calligrafia nelle dediche. E poi versi ancora più vecchi, quando non ci conoscevamo: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1972); Il cielo (1981); L’io singolare proprio mio (1992).  E l’ultima raccolta, del 2020, quando eri già molto malata, Vita meravigliosa: «Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente».

E poi le bellissime pagine del tuo libro in prosa, Con passi giapponesi (Einaudi, 2019) scritto nel tempo ma rimasto inedito «per distrazione editoriale dell’autrice» come scrisse Alfonso Berardinelli, fra i tuoi numerosissimi ammiratori, «non propriamente narrativa né saggistica, ma le due cose insieme». E c’è sulla copertina di quel libro una tua foto, anzi due (di Giovanna Nuvoletti), in sequenza, dove sei tu più che mai, che fai un gesto scherzoso e gridi qualcosa – forse che non volevi essere fotografata - con i capelli biondi e dritti della giovinezza, leggermente voltati all’ingiù, che sono rimasti gli stessi tutta la vita, stesso taglio a sfiorare le spalle, stessa riga a sinistra, solo col passare degli anni diventati bianchi. Non volevi essere fotografata all’improvviso, perché un’altra caratteristica tua era la vanità, proterva e dichiarata, e senza essere una bellezza, eri in realtà bellissima, capace di diventare irresistibile. Irresistibile come quando salivi su un palcoscenico per recitare le tue poesie. Questo ti rendeva immensamente, manifestamente felice.

Perché eri bravissima. Padrona della scena. Recitando a memoria nei tuoi vestiti maschili, con quei capelli che scendevano a nascondere il viso e che tutti insieme tornavano indietro al tuo rialzare un poco la testa. E camminavi avanti e indietro come un vecchio comico un po’ inclinato, ma molto elegante, e declamando sorridevi soddisfattissima, e gli occhi ti luccicavano dietro gli occhiali, quando clamorosamente scrosciava l’applauso.

Avevi quel modo infantile di essere felice, come quando cantavi, perché avevi una bellissima voce e sapevi suonare il pianoforte. Anzi, adesso mi sembra di non averti mai visto più entusiasta di quando ti presentasti con un cd che avevi inciso: una canzone strampalata di Diana Tejera, Al cuore fa bene far le scale. E ballavi e cantavi: «Al cuore, al cuore fa bene far le scale, al cuore…»

E quella volta, l’ultima, che ci siamo incontrate sotto casa tua, a Campo de’Fiori, e mi dicesti del tumore e sembrava che la cosa che ti dispiaceva di più era aver perso i tuoi capelli, quei magnifici capelli lisci, leggermente voltati all’ingiù.

© Riproduzione riservata