Uno dei tratti caratteristici della mia maschilità mi è sempre parso il passo pesante, la tendenza alla tallonite tradita dal collo delle mie calzature, tipicamente un po’ sfondato. Da che ho memoria odio i lacci: cerco di infilarmi e sfilarmi le scarpe senza chinarmi né sedermi, col solo gioco di tacco e punta dei piedi, e così le deformo, facendole più facili ma anche meno presentabili.

Fantastico, senza il coraggio di esplorarne le opzioni adulte, di bambineschi strappini al velcro, dei futuribili boots a conchiglia di Ritorno al futuro, della scalza esistenza degli hobbit. Dai vermigli tacchetti di Dorothy nel Mago di Oz alle mille Manolo Blahnik di Sex & the City, quello di vestire i piedi si tende a codificarlo come un leggiadro gioco da ragazze, il cui multiforme talismano appaiato rimane semmai, per il maschio anti-shopping funzionale e spiccio, un’onerosa seccatura necessaria.

Ecco dunque il drammatico grido à la Renato Zero («Scarpeeeh!») che apre La follia della donna di Elio e le Storie Tese, esilarante trattato demenziale di gender in cui «l’uomo» (eterobasico), attanagliato dall’alleanza tra i suoi omologhi omosessuali chic e l’eponima donna folle per cui disegnano sandali e sabot (da loro persuasa a sperperare fortune dal calzolaio), si domanda sardonico «cosa sono i milioni / quando in cambio ti danno le scarpe?».

Scarpe da maschi

Non che in scarpe non abbia investito io medesimo, lungo il corso del mio acclimamento nella maschilità piccolo-borghese che calzo, più o meno confortevolmente. Da bimbo, per l’orrore di mia madre, desideravo moltissimo certe vistose Bull Boys elettriche con cobra e tigri i cui occhi si illuminavano di rosso a ogni passo, e finalmente alle medie ottenni le cruciali (e non proprio economiche) Magnum nere che ogni aspirante coattello di Roma sud doveva sfoggiare come credenziale della propria virilità in erba.

Al liceo, dapprincipio, scarpe da preciso; poi subito quelle grosse da zecca, disegnate per andare in skateboard, che pure costicchiavano ma mi facevano di sinistra rispetto a chi ai piedi esibiva Perry Ellis, incongrui stivali da pugile, inspiegabili obbrobri Hogan, o quei tre modelli Nike (in realtà unisex) che per qualche ragione attecchirono profondamente e a lungo nell’immaginario italiano d’inizio millennio.

E dunque mi correggo: come sempre, per quanto si sforzi di non averne l’aria, la maschilità coltiva passioni collezionistiche anche nel reame delle calzature, in barba a Elio, e bisognerà allora dedicare una riflessione autonoma alle folli cifre che certi ragazzi spendono in sneakers rarissime che neanche indossano—e, di lì, ai tacchi di Berlusconi e dei cowboy, alle crocs corazzate Balenciaga di Elliot Page sul red carpet, alle pantofolate ghette dei principi nei ritratti rinascimentali e alle acuminate armature podali nelle coeve scene di battaglia cavalleresca.

Oggi però vorrei indugiare proprio sull’atto di mettersele e togliersele, le scarpe: alla necessità di provarsele, dure e nuove, e alla mia maschia tendenza a sdrucirle per farle morbide (e dunque, in loop, di doverle ricomprare nuove e dure, scomode).

Danteschi scalzi

C’è un che di specificamente maschile nella costrizione dei lacci, giacché la maturità del piede femminile è invece sancita tradizionalmente da scultoree scarpe scollate—e dalla capacità di camminarci dentro senza oscillare sui tacchi.

Evadere dai lacci è dunque una ribellione in seno alla maschilità, un tornare scalzi come i liberi bambini che rifiutano l’ordalia del calzare (Peter Pan, Tae-hyung dei BTS, l’Arturo dell’isola di Morante: tutti ragazzetti senza scarpe).

Nel più leggero e ritmato dei passi storici del Paradiso, Dante evoca la virale rapidità della rivoluzione di Francesco come un’improvvisa corsa per cui le scarpe, simbolo di terrestri zavorre materiali, diventano un intralcio: «si scalza» Bernardo, «e correndo gli parve d’esser tardo», e poi, in sincopata successione, «scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro», e così via in un contagio ideologico d’incalzanti scalzamenti. Le immagino soffici e pesanti le scarpe di questi maschi convertiti al francescanesimo: incapaci di seguire i loro piedi ma non rigide al punto di rimanerci attaccate.

Vorrei che fossero così anche le mie, quando le provo seduto al negozio e il pollice del commesso preme sul mio alluce per assicurarsi che, una volta in piedi, io non finisca per scalzarle semplicemente correndo un po’, come un santo medievale.

Sono invece turgide e leggere ora che ho raggiunto, con l’adultità, l’ultimo stadio dell’irrigidimento progressivo dopo le versioni da ginnastica, da tennis, da skate e quant’altro. E quindi il commesso usa ormai su di me un oggetto che, da piccolo, vedevo solo nelle scarpiere di maschi anziani: la prova materiale che il contrario della ribellione francescana è talmente disciplinante sul piede maschile da richiedere ausili meccanici tipo sorellastre di Cenerentola. Sto parlando, ovviamente, dell’infilascarpe.

L’infilascarpe

È un grande protagonista della nostra poesia postmoderna, l’infilascarpe. Figura infatti in uno dei più celebri componimenti di Satura, in cui Montale rimpiange di aver lasciato il suo in un celebre hotel veneziano—dove certo la fida cameriera Hedia l’avrà trovato e prontamente buttato «nel Canalazzo».

Tutto il senso della poesia sta nel cortocircuito tra questo accorato rimpianto, questo lutto per il perduto talismano, e l’imbarazzo di provarlo: sarebbe ridicolo telefonare al Danieli, in Riva degli Schiavoni, per chieder conto di una tale cianfrusaglia, di cui la servitù deve essersi sbarazzata non per sbrigativa noncuranza ma proprio per proteggere il «prestigio» degli sbadati ospiti.

Anzi, l’imbarazzo non è davvero per il sentimento ispirato dall’infilascarpe, quanto piuttosto per l’infilascarpe stesso: una «indecenza», un «orrore» che uno non si dovrebbe neanche portare dietro «tra i similori e gli stucchi» di un buon albergo sul Canal Grande.

Non riuscivo a immaginarmelo, da studente, quel correlativo oggettivo, giacché Montale lo descrive come un «cornetto di latta arrugginito» mentre, nella mia esperienza, gli infilascarpe sono sempre stati stondate lingue di plastica o bachelite.

Prima di sapere a cosa servissero li brandivo infatti come spade: mio padre ne possedeva uno lunghissimo, non so se per stivali o per poter raggiungere il proprio tacco senza sedersi, e io me lo legavo al fianco come una scimitarra, senza sapere che ne avrei avuto bisogno più tardi per entrare nelle scarpe nuove non ancora sfondate.

Mi domando se quello di Montale fosse un cornetto, invece che una lama senza filo da maschietti spadaccini, perché lo condivideva con la moglie, vera protagonista perduta dei suoi undici versi malinconici. Ma più probabilmente si tratta di una banale evoluzione, nel frattempo, della povera tecnologia che ci permette di imprigionare i piedi nelle rigidità inflessibili richieste da alberghi dabbene e prestigi indipendenti dal genere di chi li deve mantenere.

Scassinare la natura

Se è vero che la maschilità, come ogni identità socio-culturale, è un costrutto—e che dunque è più nelle cose che nelle persone che le usano, più negli accessori che non nelle sostanze ed essenze—allora le scarpe sono forse una buona metafora per descriverne l’ingegneria adesa al corpo—che adorna e imprigiona, protegge e costringe.

In inglese d’altronde, invece che ‘mettersi nei panni’ di qualcuno, si cammina nelle sue scarpe, e ricordo bene Julia Roberts, in Notting Hill, che scandiva uno dei mille eufemistici detti inverificabili intorno ai sintomi della potenza virile (tradotto così nel doppiaggio: «piede grande: grande scarpa»). In tale metafora, l’infilascarpe potrebbe dunque diventare una chiave invece che una spada: lo strumento che dischiude la maschilità a chi la desidera indossare, facendola momentaneamente aperta.

Ma allora all’imbarazzo di Montale se ne aggiunge forse un altro: quello di aver bisogno, per stare comodi nella propria supposta natura (in quella struttura, cioè, cui saremmo in teoria destinati a realizzarci autenticamente dalla biologia a dalla buona creanza), di un grimaldello. Più che una chiave infatti, l’infilascarpe è un piede di porco che ci ricorda come dall’identità (e non solo quella di genere) ci divide sempre un uscio senza serratura, da scassinare.

Come le scarpe da uomo per bene, la maschilità è disegnata per non calzare naturalmente a nessuno senza l’aiuto di un qualche lubrificante aggeggio, lingua o cornetto che sia. E tuttavia, correndo come santi o mettendo e togliendo senza paura di sfondare, dell’infilascarpe si finisce per poter fare a meno: basta accettare che la comodità sia il risultato di un processo invece che un dato di natura.

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