Una delle ultime volte che ho visto Philip Roth, mi ha raccontato una storia sulla sua breve amicizia con Primo Levi.

Era la metà degli anni Ottanta e Mr. Roth aveva invitato Levi per un ciclo di conferenze nelle università americane. Levi era di quattordici anni più vecchio, e Roth lo vedeva come una specie di nume tutelare, più che come un amico. Si erano conosciuti non troppo tempo prima, a Torino, e si erano scritti per un po’. Roth sapeva, o diceva di sapere, della depressione di Levi, della difficoltà che aveva a scrivere, della fatica che metteva in ogni suo giorno. Per questo insisteva perché lo raggiungesse negli Stati Uniti. Pensava che si sarebbe potuto distrarre, che incontrando i suoi lettori americani, appassionati quanto lui, avrebbe ritrovato un po’ della fiducia e dell’entusiasmo che si stavano spegnendo. Levi acconsentì, o per lo meno non declinò. Roth cominciò a organizzargli il giro, eccitato dall’opportunità di presentare un maestro agli amici e ai colleghi ­– gli piaceva l’idea di sfoggiare trofei, se ne aveva, ma era anche sinceramente affettuoso, a suo modo.

Nella sua ultima lettera, Roth, descriveva a Levi il giro che avrebbero fatto e gli raccontava dei campus che li avrebbero accolti; gli chiedeva quando sarebbe arrivato e si preparava mentalmente, come ci si prepara all’arrivo di un vecchio amico che non si vede da tempo.

La risposta di Levi arrivò molto tardi rispetto alla norma, sul retro di una cartolina. Consisteva in di una sola frase: «Non c’è più tempo».

Era l’aprile del 1987, sarebbe morto qualche giorno dopo.

Non sapevo se credergli: gli scrittori sono affabulatori e Mr. Roth era il più grande affabulatore di tutti. Ero certo che avesse già raccontato quell’aneddoto in diverse occasioni, e, se avessi chiesto ai suoi amici, tutti mi avrebbero elencato almeno un paio di particolari che non combaciavano tra le diverse versioni della storia. Per questo non lo feci mai.

Qualche tempo dopo la sua morte, mi ritrovai tra le mani la monumentale, oltre mille pagine, biografia di Roth scritta da Blake Bailey. L’unica biografia ufficiale, alla quale Mr. Roth stava lavorando alacremente negli anni della nostra frequentazione, esaltato all’idea che qualcuno potesse divertire i lettori coi fatti della sua vita. «Non voglio che mi rendi giustizia», aveva detto a Bailey. «Ma che mi rendi interessante». Philip Roth, la biografia, Einaudi, 2022.

Per ironia della sorte, la storia stessa di quella biografia – prima minacciata dalle nefandezze presunte di Roth, poi ritirata dall’editore a causa dell’uragano scandalistico toccato in sorte a Bailey (è stato accusato di stupro da alcune donne di molestie e violenze sessuali e si è sempre dichiarato innocente, ndr) – è avvincente. Il pensiero che abbia rischiato di scomparire dagli scaffali basterebbe a renderlo il libro più rotthiano di sempre e Bailey stesso, un cattolico dell’Oklahoma alle prese con l’incarnazione della letteratura ebraica americana, a un certo punto della sua vicenda si è trasformato nell’ultimo personaggio del soggetto della sua biografia.

Quando ci siamo sentiti, però, pensavo soprattutto alle numerose storie poco credibili di Roth, e degli scrittori in generale. Non deve essere semplice per un biografo averci a che fare.

Lo scrittore Blake Bailey (foto Wikipedia)

Come si fa a discernere la realtà dalla leggenda nelle vite degli scrittori?

Con impegno e dedizione. Se sospetto che una storia si apocrifa e non riesco a provare il contrario, lo scrivo o la escludo dalla narrazione. Ma di solito è solo una questione di sfumature. Roth, per esempio, è sempre stato particolarmente irremovibile sul sostenere che Sophie Portnoy non avesse nulla a che vedere con sua madre Bess. Ma la realtà è più complessa: Bess è stata una madre affettuosa e competente, ma poteva diventare soffocante e insopportabile quanto la madre di Portnoy, a volte.

Lo dice il fratello di Mr. Roth, Sandy…

Sì, in diverse interviste. E anche Roth stesso nelle lettere che ha scritto da ragazzo, anche se poi col tempo sembrava essersene dimenticato. In ogni caso, una volta raccolte le informazioni in merito, o per lo meno tutto ciò che riuscivo a racimolare, ho provato a rendere la migliore sfumatura possibile di come Bess fosse in realtà, al di là dei ricordi corrotti dal tempo e della sua versione, attendibile o meno, romanzesca.

Come è finita?

Era come Sophie, sotto molti aspetti, ma non completamente.

Mi sembra un risultato piuttosto prevedibile.

Lo è, ma non è scontato.

Prima di Roth, hai scritto la biografia di John Cheever, che è passato alla storia come una specie di bugiardo patologico…

Nel suo caso preferisco il termine “favolista”, uno che raccontava storie. Era, prima di tutto, uno storyteller, e non sapeva resistere dall’impreziosire la realtà con particolari che la rendessero più interessante, o magari per risolvere qualcuno dei problemi emozionali che lo affliggevano, spesso legati alla sua bisessualità repressa; qualche volta anche per vendicarsi della sua povera moglie, Mary. Nell’ultimo caso, per esempio: Mary in un paio di occasioni non è riuscita a preparargli la cena perché era impegnata nelle riunioni della League of Women Voters e lui ha trasformato questi episodi nel suo racconto An Educated American Woman, che parla di una donna che abbandona il figlio malato per inseguire il suo interesse civico.

E il figlio?

Muore.

Che esagerazione…

È quello che è, era il suo modo di esorcizzare qualcosa che lo divorava dentro. E si faceva divorare molto facilmente.

Oltre a Roth e Cheever, hai avuto a che fare anche con Richard Yates, che di materiale narrativo ne aveva…

«Come scrittore era a posto», ha detto una volta il suo editore Sam Lawrence. Come essere umano, ovviamente, era un assoluto disastro, specialmente negli ultimi anni. Eppure, è riuscito a far funzionare la sua carriera malgrado l’alcolismo, la malattia mentale, e un’occasionale inettitudine nei confronti della quotidianità. Per questo merita rispetto, per lo meno da parte mia.

Però che grande vita…

Adoro Revolutionary Road e Easter Parade e ho sempre pensato che le sue opere fossero molto autobiografiche. C’è sempre una madre alcolizzata e scultrice che salta fuori di qui e di là. La prima persona con la quale ho parlato, sua figlia minore, Monica, non solo ha confermato questa mia impressione, ma mi ha raccontato un sacco di altre incredibili storie collaterali, cioè: Yates è stato il solo autore dei discorsi di Robert F. Kennedy all’apice del movimento per i diritti civili; è stato un pioniere nella sperimentazione degli psicofarmaci come paziente per curare la propria sindrome bipolare; ha ispirato un episodio della sit com Seinfeld e Monica Yates, che all’epoca era fidanzata con Larry David, è il modello sul quale è stato creato il personaggio di quella sit Elaine Benes. Una serie di fatti straordinari, ero completamente rapito.

Dover avere a che fare con vite come queste è una grande opportunità, ma anche una bella sfida…

Apprezzare, o perfino amare, il soggetto della ricerca aiuta molto. Stimola il rispetto di cui ti dicevo e spinge a fare il possibile per riconciliare le contraddizioni che possono emergere.

In queste vite hai anche a che fare con temi piuttosto delicati. Questo ti ha mai preoccupato?

Non direi. Una delle mie biografie preferite di tutti i tempi è Capote, di Gerald Clarke, che racconta come Truman Capote abbia assunto degli scagnozzi per minacciare e intimidire gli amanti recalcitranti e altre vicende del genere. Fatti veramente terribili, crudeli. Eppure, quando ho finito di leggere il libro ero investito di un’ammirazione per Capote niente affatto riluttante. «Ho pensato che potevo scrivere tutto ciò che volevo», ha detto una volta Clarke. Ed è quello che penso anch’io. Se il biografo non tralascia niente nella sua ricerca, le cose peggiori si risolvono da sole.

Non è una posizione facile, di questi tempi…

No, non lo è.  

Scrivere del lavoro di certi romanzieri, o addirittura ammirarlo, è diventato difficilissimo per ragioni che non hanno nulla a che vedere con i loro libri. Che ne pensi?

È un peccato. Tutti gli esseri umani hanno un che di profondamente sbagliato in loro, e gli artisti e gli scrittori hanno la tendenza a essere più sbagliati della maggior parte degli altri. Norman Mailer ha accoltellato la sua seconda moglie, ma non credo che questo debba impedirmi di leggere Il nudo e il morto; e lo stesso vale per i dipinti di Picasso, o per i film di Roman Polanski, e via dicendo. L’opera è l’opera, l’uomo che sta dietro all’opera è tutta un’altra cosa.

Anche quando l’opera riflette precisamente l’uomo?

Forse proprio in quel caso. Elaborare un tormento interiore, che poi può sfociare in un gesto fisico tremendo, è parte dell’esperienza dell’artista e del romanziere in particolare. A volte serve a disinnescare il pericolo di passare ai fatti nella realtà, altre volte non siamo così fortunati.

Possiamo parlare del tuo caso?

È esistito, è reale. Parliamone.

Cosa è successo (letterariamente parlando)?

Ho scritto un libro, accolto molto bene, e poi sono stato investito da uno scandalo. Non vorrei entrare nei particolari della vicenda…

Ci mancherebbe. Mi interessa sapere però se secondo te, dopo tutto, il libro ne ha risentito…

Prima del mio scandalo e malgrado il fatto che sembrava che solo scrivere di Roth fosse già un peccato di per sé, la biografia ha goduto di un’ottima accoglienza. Poi tutti si sono affrettati a rinnegarla con foga, sembrava che fosse più importante sottolineare quanto non ci avevano avuto a che fare che cercare di comprendere la situazione.

Come vedi il futuro in questo senso?

Ovviamente per me sarà molto più difficile vedermi pubblicato alcunché. Ma continuerò a scrivere delle cose che mi interessano, che vengano pubblicate o meno. Che vengano lette, o meno.

È una scelta coraggiosa…

Non saprei immaginarmi in nessun’altra veste.

Pensi che il mondo letterario stia subendo una forma di censura?

Gli scrittori e gli editori sono terrorizzati; cercano disperatamente di cadere moralmente e politicamente dalla parte giusta di qualsiasi discussione pubblica. Non me la sento di biasimarli. Ma non credo che sia l’atteggiamento col quale si possa fare della grande arte, e nemmeno della buona arte. Penso che, considerata l’etica comune di questi tempi, essere cancellati sia quasi un sollievo.

Mr. Roth l’ha scampata per un pelo…

Come scrittore sì, ma poi non è mai riuscito a esimersi dalla discussione.

Voi avete iniziato a lavorare assieme prima…

Sì, ho impiegato nove anni a scrivere la biografia.

Come è cominciata?

Nel marzo del 2012 ero a pranzo con Jim Atlas, che ha scritto la prima grande biografia di Saul Bellow, e lui mi ha detto che Ross Miller «Non rispondeva più alle telefonate di Roth». Sapevamo Miller aveva lavorato con lui per parecchi anni, ma non sapevamo nient’altro. Per farla breve: ammiravo il lavoro di Roth, ho intravisto un barlume di opportunità e gli ho scritto una lettera. Lui aveva letto la mia biografia di Cheever e ha risposto favorevolmente. Il resto è una storia molto complicata…

(AP Photo)

Immagino. Aveva una politica piuttosto severa su come andava raccontata la sua vita…

Però è sempre stato onesto, credo. Ci ha messo un forte grado di autodifesa e di conseguenza aveva la tendenza a dipingere i suoi detrattori – le sue due mogli e Ross Miller, soprattutto – come malvagi, ridicoli, disonesti, inetti, e via dicendo. Era tutto abbastanza vero, perché era il modo in cui lui la vedeva; quale fosse la mia opinione in merito, spesso avallata da diverse prove contrarie a quello che sosteneva lui, è tutt’altro argomento.

Miller non era arrivato da nessuna parte, ma nemmeno Hermione Lee, Lisa Halliday, Harry Maurer e tutti gli altri che avevano tentato di scrivere la biografia di Mr. Roth prima di te. Non eri in ansia?

No, ero contento dell’opportunità. Inoltre, avere così tanti predecessori mi dava la possibilità di partire da una sorta di terreno comune. Con Miller il problema era che non aveva lavorato molto nei sei anni di interviste che ha fatto. Aveva sentito poche persone intorno a Roth e mi aveva passato tutto ciò su cui stava lavorando. Lo stesso hanno fatto tutti gli altri. Quello che ho voluto fare io è pormi come l’esatto opposto di chi mi aveva preceduto. Ho intervistato Philip, naturalmente, ma ho voluto parlare con chiunque abbia avuto a che fare con lui.

Una volta ero a casa sua e ricordo che era molto ansioso di spedirti una busta, ma non parlava granché di come procedeva il lavoro. Qual era la vostra routine?

All’inizio abbiamo parlato molto, poi ho cominciato ad allargare il giro, a cercare amici, conoscenti e parenti. Nelle sue case, Philip aveva chilometri di archivi sulla sua vita e tutto il tempo del mondo per spulciarli a dovere, visto che aveva smesso di scrivere. Dopo aver esaminato un certo documento, compilava un promemoria descrittivo su cosa contenesse e spesso ci metteva delle note su ciò che io, secondo lui, avrei dovuto pensare in merito. Ovviamente avevo le mie opinioni, sia sui documenti che mi mandava che sui suoi promemoria. Ma me le sono tenute per me.

E poi sono finite nella biografia.

Ovviamente.

Avete mai litigato?

Ci sono state delle complicazioni durante i sei anni nei quali abbiamo lavorato assieme prima della sua morte, ma niente di serio. Era un gioco di discrezione, di delicatezze reciproche. E poi era l’uomo più divertente del mondo. Abbiamo riso moltissimo.

Quanto ti ci è voluto per avere una versione della biografia che soddisfacesse entrambi?

Non provo mai attivamente a far felici i soggetti delle mie biografie o le loro famiglie, se non cercando di scrivere un libro il più bilanciato, piacevole da leggere, e completo possibile. Nel caso di Philip, non ha mai avuto occasione di leggere il manoscritto mentre ci stavo lavorando. Se fosse vissuto fino alla fine del mio lavoro, avrebbe potuto revisionarlo per controllare che i fatti fossero riportati in maniera corretta, ma non avrebbe potuto mettere bocca sull’interpretazione.

È meglio avere a che fare con le vite dei vivi o dei morti?

Diciamo che coi morti è più facile. Nel loro caso si deve avere a che fare solamente con la famiglia, con gli amici, coi colleghi e con i conoscenti. Philip, che è stato in realtà l’unico autore in vita col quale io abbia lavorato, era una gran persona, non lo ripeterò mai abbastanza: piacevole, divertentissimo, molto corretto. Però sapeva essere anche molto autoritario, era quasi un maniaco del controllo e spesso era piuttosto stancante.

Sarà stato anche impegnativo doversi confrontare con una personalità letteraria tanto prepotente…

Da quel punto di vista, però, ho imparato a non farmi influenzare dai suoi tentativi di entrare nel merito della scrittura. Da quando si era ritirato, mi è sembrato di capire, gli mancava il lavoro sul testo, benché affermasse il contrario, e quindi cercava sempre di dirigere i lavori.

In generale hai sempre avuto a che fare con voci narrative molto connotate. Come moduli la tua voce a seconda del soggetto?

Penso che in realtà la mia più grande influenza a livello stilistico sia stata quella di Lytton Strachey, che ha scritto Eminenti vittoriani. Strachey teneva un distacco quasi ironico dal soggetto del suo lavoro – qualcosa che mi fa pensare a come Dio potrebbe sentirsi distaccato dalle vicende terrene, se solo esistesse. Una delle mie scene preferite in Eminenti vittoriani è la morte del dottor Arnold: colto dal terribile dolore di un attacco di angina, Arnold chiede al suo sconcertato figlio di ringraziare Dio per il male che suo padre sta provando. Poi muore. Mi fa sempre ridere e non saprei dire perché. Non perché io provi piacere nella morte del dottor Arnold, ma piuttosto perché ho la sensazione che tutta l’umanità (incluso Arnold) sia contemporaneamente commovente e, diciamocelo, ridicola.

Forse è proprio questo il senso di esplorare le vite altrui, trovare il commovente e il ridicolo ed esporli…

Forse. E forse lo facciamo anche per poter poi applicare questo dualismo a ciò che ci capita di commovente e ridicolo e trovare la forza, o le ragioni, per andare oltre. Senza fermarci a riflettere più del dovuto e evitando di trasformare tutto in tragedia, o in farsa.

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