La cultura ebraica elabora il trauma attraverso il cibo: pane azzimo, babka, ma’amoul sono tracce di tradizione divenuta ad oggi un patrimonio condiviso tra le culture
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Nel centro storico di Pitigliano, sotto la Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, il quartiere ebraico conserva la memoria – anche – attraverso il cibo. Lo dimostra il forno che produce il pane azzimo e lo sfratto, un dolce poco conosciuto. La sua storia inizia nei primi anni del Seicento, quando il Granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici emana un editto che obbliga tutti gli ebrei di Pitigliano, Sovana e Sorano a lasciare le proprie abitazioni e trasferirsi nel ghetto pitiglianese. Di fronte alle prime resistenze, i messi ducali percorrono le vie dei borghi, bussando alle porte con un bastone per intimare lo sfratto.
Un secolo dopo, la comunità ebraica ricorda quell’evento creando un dolce a forma di bastone. Lo sfratto nasce con un involucro di pasta sottile – farina, uova, zucchero, burro – e un ripieno di miele, noci, noce moscata, scorze di agrumi. Ingredienti che appartengono tanto alla tradizione ebraica quanto a quella locale, con richiami che alcuni fanno risalire alle ricette etrusche.
La Maremma toscana non era tradizionalmente un centro ebraico di rilievo, ma divenne per loro un rifugio, soprattutto durante dalle persecuzioni papali del XVI secolo. La comunità ebraica di Pitigliano nacque per sottrazione, come conseguenza di una precedente espulsione ma nel corso dei secoli seppe radicarsi profondamente, vivendo in equilibrio con il contesto sociale e culturale circostante, tanto da essere soprannominata "la Piccola Gerusalemme". Anche durante la II Guerra Mondiale le famiglie locali hanno nascosto le famiglie di fede ebraica e una piccola comunità vive ancora lì.
La memoria si è poi ampliata fino a diventare patrimonio condiviso dell’intera comunità locale: lo sfratto, oggi riconosciuto come Presidio Slow Food, è considerato uno dei dolci tipici della Maremma.
Una grammatica del trauma
Lo sfratto di Pitigliano non è un caso isolato. Fa parte di una pratica che attraversa millenni e continenti, una sorta di grammatica culturale ebraica che metabolizza sistematicamente il trauma attraverso il cibo.
Il pane azzimo, il tipico pane non lievitato, secondo la tradizione, nasce durante l’esodo dall’Egitto, quando gli ebrei, in fuga dalla schiavitù, non ebbero il tempo di far lievitare l’impasto: da allora, l’azzimo – letteralmente “senza lievito” – ricorda la fretta della liberazione e la durezza della schiavitù.
Durante Purim festeggiano la salvezza del popolo ebraico mangiando gli Hamantaschen, dei biscotti triangolari che ricordano il ministro del re Assuero che pianificò l’annientamento degli ebrei dell’impero persiano. La storia, raccontata nel Libro di Ester, narra come la regina Ester salvò il suo popolo dallo sterminio pianificato da Haman. In Italia sono conosciute come le orecchie di Haman.
Durante Pesach, la Pasqua ebraica, preparano invece il charoset, un impasto dolce di mele, noci e spezie che ricorda la malta usata dagli schiavi ebrei per costruire mattoni in Egitto.
Anche nei luoghi meno scontati questa pratica ha lasciato tracce. In Danimarca esistono i jodekager, letteralmente "torte degli ebrei", biscotti natalizi speziati con cannella e cardamomo. Il nome risale ai primi dell’Ottocento, quando alcuni ebrei dell’Europa orientale aprirono delle panetterie a Copenaghen. I sapori che portavano erano estranei alla tradizione locale, ma si imposero al punto che oggi questi biscotti sono considerati tipicamente danesi. Anche qui, l’estraneità iniziale si è trasformata in integrazione culturale.
Nell’Europa dell’Est, il babka racconta un’altra storia di trasformazione. Questo dolce intrecciato, simile al panettone ma con ripieno di semi di papavero o cioccolato, veniva preparato dalle comunità ashkenazite che avevano subito pogrom ciclici. In luoghi come la Polonia, dove gli ebrei vissero per quasi mille anni prima dello sterminio nazista, il babka rappresentava la continuità culturale nonostante le violenze ricorrenti.
Quando queste comunità emigrarono in America, passando per Ellis Island tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, portarono con sé le ricette e il babka si adattò agli ingredienti americani. La versione così come la conosciamo oggi è nata a New York: lo testimonia l’aggiunta del cioccolato nell’impasto che mancava nella versione originale in quanto troppo costoso.
Che le ricette si adattino alle necessità lo dimostra anche la diaspora sefardita del 1492 che ha prodotto un’altra geografia del trauma alimentare. Quando i Re Cattolici emanarono l’Editto dell’Alhambra che espelleva gli ebrei dalla Spagna, chi partì portò con sé le ricette della patria perduta. Nei porti del Nord Africa, nei Balcani, nell’Impero Ottomano, queste ricette si modificarono incorporando spezie e ingredienti locali, ma conservarono la memoria dei luoghi da cui erano stati cacciati.
I dolci sefarditi che si svilupparono in esilio spesso richiamano la Spagna attraverso l’uso del miele, delle mandorle, dei sapori mediterranei. Non celebrano l’espulsione, ma ne elaborano il ricordo attraverso sapori che mantengono vivo il legame con la terra d’origine. Anche chi non era mai stato in Spagna continuava a preparare dolci che la richiamavano attraverso ricette tramandate oralmente.
Nel Levante, ebrei e palestinesi hanno condiviso per secoli dolci simili, pur attribuendo loro memorie diverse. I ma’amoul, profumati biscotti ripieni di datteri o frutta secca, hanno origini che risalgono all’antico Egitto e si sono diffusi in tutto il Medio Oriente. Sono preparati per le festività religiose: Eid e Ramadan per i musulmani, Pasqua per i cristiani, e Purim per gli ebrei, secondo cui il guscio sottile del biscotto, che racchiude un ripieno prezioso, richiama la storia della regina Ester, costretta a celare la propria identità ebraica per salvare il suo popolo.
Il meccanismo della memoria
Tutti questi dolci funzionano secondo lo stesso meccanismo: prendono la forma o il nome o gli ingredienti a seconda della necessità e li trasformano in momento di condivisione. Non negano la violenza subita, ma la rielaborano in modo che diventi trasmissibile alle generazioni successive.
È un processo complesso, che richiede tempo – lo sfratto nasce un secolo dopo l’editto di Cosimo II – e che non cancella il dolore ma lo integra nella vita quotidiana. Il bastone dell’oppressione diventa biscotto da condividere, ma resta riconoscibile come bastone. La memoria si fa cibo, ma non perde la sua funzione di ammonimento.
Attraverso il cibo si raccontano storie più complesse di quelle apparenti. Ogni dolce della memoria non è la vittoria del bene sul male, ma il segno di una cultura che resiste alla semplificazione e alla cancellazione, mantenendo viva la sua storia.
Il fatto che molti di questi dolci siano stati adottati dalle culture locali – dai jodekager danesi allo sfratto maremmano – dimostra che questa elaborazione del trauma ha una forza che va oltre i confini delle comunità che l’hanno generata.
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