Cara Giulia,

volevo giusto condividere un po’ del mio veleno per sfogarmi. Ogni giorno mi sveglio e loggo per lavorare. Ho sempre apprezzato il mio lavoro, la programmazione è un mondo che mi affascina e mi piace quel che faccio, ma quando sono stato assunto nella mia attuale ditta non riuscivo a smettere di sentirmi male e continuo spesso a sentirlo ancora. Il malessere viene dall’idea sentirmi nel posto sbagliato, di essere la persona sbagliata e di occupare il posto che spetterebbe a qualcun altro.

Sono parecchio bravo in quel che faccio, mi sono fatto notare immediatamente, ma sento che dovrebbe essere una persona che ha una vita soddisfacente ad avere il posto. Ho perfino pensato di licenziarmi più volte per questo. Un posto con una paga decente, buone possibilità di carriera e progetti interessanti sono inutili nelle mani di una persona che in tutto al di fuori del lavoro è un completo fallito. Mesi fa, quando mi scollegavo dal lavoro, fissavo sempre lo schermo spento pensando al fatto che finito il mio turno non avevo nient’altro da fare che mi facesse sentire soddisfatto o valesse il mio tempo, così finivo per continuare a lavorare o a scrollare all’infinito internet senza mai trovare un vero godimento.

Nessuna relazione, nessun amico, nessun hobby, nessuna vita serale, nessuna comunità, nessuno sport, nessun interesse oltre il superficiale, nessun desiderio di acquistare qualcosa, nessun viaggio, nessun progetto, nessun sogno. Mi sembra di rubare i mezzi a una persona che avrebbe solo bisogno del mio posto per realizzarsi, mentre io per quanto lavoro sento di non realizzare niente.

Le cose sono migliorate un poco negli ultimi mesi, mi sono trasferito, sono uscito dalla vallata dove sono cresciuto e che ho sempre odiato, ma che per qualche ragione mai compresa non avevo ancora lasciato, e nella mia nuova città sto iniziando ad uscire di nuovo e farmi degli amici, ho iniziato anche a fare qualche viaggio e spero di trovarmi qualche hobby. Ma la sensazione ritorna spesso, quell’amaro in bocca che qualcosa non va e che mi sto sforzando di apprezzare la vita a tutti i costi solo per sfuggire alla vergogna di essere di troppo, mi sembra una drammatica ironia della vita che quando cercavo di trovare un lavoro fisso e stabile non pensavo ad altro ed ora non penso ad altro che ho sbagliato. Scusa lo sfogo, ma se qualcuno prova le stesse cose o simili almeno saprà che non è solo.

R.


Caro R.,

mi sembra che non saperti solo serva soprattutto a te in questo momento, quindi per prima cosa te lo confermo: non sei solo e nessun uomo è un’isola, per dirla con John Donne. Persino Hugh Grant, che in About a Boy sosteneva di essere «quella cazzo di Ibiza», alla fine realizzava di essere benvoluto da qualcuno che non fosse se stesso. In questo caso c’è però un problema aggiuntivo, mi sembra di capire, e cioè che sei proprio tu il tuo primo detrattore.

Che brutta parola “fallito”. Non è la prima volta che esprimo il mio dissenso per questo tipo di definizione, eppure me la ritrovo spesso in queste lettere, soprattutto in quelle scritte dagli uomini. Ci sono sicuramente gabbie culturali che vi imprigionano (magari meno letterali di quelle femminili, ma esistono), e ho l’impressione che, nel bene e nel male, stiate imparando a prenderne coscienza. Questo fa sì che siate sempre più consapevoli dei vostri disagi, ma allo stesso tempo non avete ancora messo a punto il vocabolario e gli strumenti per gestirli (fai di questa analisi sociologica da due lire quello che vuoi).

Nel tuo caso specifico, perdonami la ripetitività, non credo ci sia molto da fare se non affrontare un percorso di supporto psicologico. Non azzardo diagnosi, avendo io una laurea triennale in rucola e tartine, ma quello che chiami amaro in bocca e che non ti lascia in pace ha tutta l’aria di essere qualcosa da affrontare con un professionista.

Tra le infinite persone che in questo tempo si autodiagnosticano la sindrome dell’impostore, tu – che hai avuto l’accortezza di non citarla, e di questo ti sono molto grata – potresti averla davvero. Perché mai dovresti rinunciare all’unica cosa che ti dà veramente piacere? Perché qualcuno che ha già altri sfoghi dovrebbe meritarsi anche la tua unica fonte di sollievo? Sono domande retoriche, certo (le risposte sono non dovresti e non se la meritano, nel caso te lo stessi chiedendo), limitate anche dal fatto che chi ti scrive sarebbe disposta a fare molte cose indicibili pur di non lavorare mai più nella sua vita, ma a ognuno il suo.

In ogni caso stai imparando da solo che prendere in mano la situazione piuttosto che subirla è il primo modo per uscire dall’impasse in cui ti trovi: cambiare città, cambiare vita, frequentare persone nuove, è tutto grasso che cola quando ci troviamo incastrati in una dimensione che ci affligge. È la cosa più difficile del mondo smettere di essere sé stessi, almeno nella misura in cui essere sé stessi è d’intralcio alla propria serenità, ma sradicarsi dalle cattive abitudini è un passo nella direzione giusta, credo.

Non ho risposte per te, caro R., e tu giustamente non mi hai fatto domande, ma posso dirti senza ombra di dubbio, anche senza conoscerti, che non sei di troppo e non hai niente di cui vergognarti. La testa va curata tanto quanto un ginocchio dolorante o una tosse secca e non sentirsi in bolla non è un fatto disdicevole né tantomeno una colpa. È senz’altro un problema, ma lo è soprattutto per te e sicuramente non per i metri quadrati che occupi, peraltro con merito, in un ufficio.

Prendi coraggio, ascolta le tue esigenze, e sull’onda di queste novità cerca di percepire ogni spostamento d’aria nella tua vita. Cosa ti fa stare bene? Il gusto di menta chimica di uno specifico dentrifricio? Il ritornello di una canzone che hai sentito al supermercato? Imparare una ricetta a settimana? Vale tutto, basta che funzioni.

Giulia


 

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